All’inizio di “20 giorni di Mariupol”, la voce fuori campo di Mstyslav Chernov afferma: “Questa tragedia non deve rimanere sconosciuta”. Per fortuna, questo auspicio si è avverato. Grazie alla decisione dell’Academy statunitense, annunciata al mondo la notte del 10 marzo 2024, scopriamo oggi che il miglior documentario quest’anno è proprio “20 giorni di Mariupol”, aggiungendo anche questo prestigioso riconoscimento al premio BAFTA.

È la prima volta che un film ucraino vince un Oscar, ed è una vittoria importante: almeno nel mondo del cinema la verità e il coraggio sono stati premiati. Il regista non rimane dietro le quinte: “filma e cammina”, per farci vedere l’agonia della città attraverso i propri occhi. L’Academy statunitense ha dato una risposta precisa alla domanda che si pone nel film ad un certo punto il regista “Chi vince la guerra d’informazione?”. Stamattina abbiamo visto che, almeno per oggi, vince chi fa vedere cose che sono vere, anche se dolorose.

Dall’assedio di Mariupol all’Oscar

Il documentario, proiettato a Verona presso la Fucina Machiavelli il 26 febbraio con Festival Mondovisioni, ci presenta la cronaca dell’inizio dell’assedio durato 86 giorni, concentrandosi su quei momenti di sgomento e di incredulità in cui si credeva ancora di poter cambiare il corso della guerra semplicemente informando il mondo occidentale.

Il reporter Mstyslav Chernov, il fotografo Evhen Maloletka della Associated Press e la field producer Vasilisa Stepanenko, pur avendo sulle spalle una lunga esperienza di cronaca di guerra, di fronte all’enormità della distruzione a cui stavano assistendo, hanno creduto che le riprese dal reparto maternità bombardato avrebbero cambiato tutto, una volta trasmesse.

Questa certezza gli ha dato coraggio per andare avanti a rischiare. Ma lunghe ore di riprese si riducono ai pochi minuti nel notiziario e vengono presto dimenticate. Il merito del documentario è anche questo: mostrare come un crimine di guerra di portata catastrofica viene prima fissato con uno singolo sguardo e poi ridotto in pillole di informazione fugace. Volti e nomi diventano secondi sullo schermo. La testimonianza diretta è seguita da quel che rimane della realtà dopo il filtro dei mass media, che comprime e semplifica.

Una scena dell’evacuazione dell’ospedale di Mariupol, dove avevano trovato rifugio diverse donne in gravidanza. e bombardato dalle forze russe. Fot dal film “20 days in Mariupol”.

Registi in prima linea

Per dare l’idea del rischio che hanno corso Chernov e Maloletka, va ricordato Mantas Kvedaravičius, documentarista lituano di chiara fama, autore di “Mariupolis” (2016), realizzato dopo i bombardamenti del 2014-2015. Anche lui era sul campo nei primi giorni dell’invasione, a documentare quanto accadeva. Non ha avuto però la fortuna di assistere alla prima del suo documentario Mariupolis-2: è stato completato post mortem. Mentre Kvedaravičius cercava di uscire dall’accerchiamento, portando verso la sicurezza anche tre donne e un bambino, è stato arrestato, torturato e ucciso dai militari russi.                                                                     

“20 giorni a Mariupol” è anche un film filosofico, che sottolinea quanto sia difficile per una persona pacifica accettare la violenza, anche se sta davvero accadendo davanti ai suoi occhi. “Il mio cervello vuole dimenticare ma la mia camera non me lo permetterà” – dice il narratore, con la speranza che anche gli spettatori accettino quel che vedono. No, nel documentario non ci sono immagini da film dell’orrore. Secondo l’opinione della poetessa di Mariupol Oksana Stomina, che dal 15 marzo sarà in Italia per un lungo tour poetico (prima tappa all’Auditorium Conciliazione a Roma per “ritratti di poesia” qui , il film “è duro e onesto, ma le realtà era molto peggio”. Infatti, Chernov evita, nei limiti del possibile, di mettere al centro la carneficina. Certo, ci sono i cadaveri dei civili e le case ridotte in macerie, che compongono il lugubre paesaggio di una città poco prima fiorente. Ma ci sono anche le strade deserte e i silenzi: “la guerra comincia con il silenzio”, sono le prime parole che restano nella mente dello spettatore.

I dettagli che parlano senza parole

E poi ci sono i dettagli: lo smalto sulle unghie di una donna che ha appena perso i figli: l’aveva messo quando c’era la pace, pochi giorni prima. Le bandiere ucraine bagnate dalla pioggia sopra la strada, un arredo urbano consueto che ora diventa simbolo della resistenza. Il porcellino d’india che fugge impazzito dal suo padrone che cerca di portarlo nel rifugio. I cavi elettrici caduti per terra, nelle pozzanghere: ci si cammina sopra senza paura perché l’elettricità non c’è più.

La morte viene accennata in modo rispettoso, con una traccia di macchie di sangue sulla barella, come un’impronta della sacra sindone senza risurrezione. La vediamo negli occhi di un uomo robusto dalla faccia in apparenza inespressiva: il suo lavoro è portare cadaveri anonimi, chiusi nei sacchi di plastica, nella fossa comune. “Chiunque sia colpevole, è maledetto!”: credo che le sue parole vadano rivolte anche a chi non abbia creduto, nemmeno di fronte all’evidenza, e ha dato retta ai media russi che hanno osato affermare che il bombardamento del reparto maternità fosse una “messa in scena dei giornalisti occidentali”. È una bugia evidente, ma ha comunque trovato seguito proprio in quell’Occidente dal quale Mariupol si aspettava un aiuto militare rapido ed efficace.

Il trailer del documentario di Mstyslav Chernov, vincitore del premio Oscar come miglior documentario 2024 “20 days in Mariupol”.

Una lingua da bombardare

Un’altra bugia della propaganda russa che il film smentisce riguarda la presunta “persecuzione dei russofoni”: tutti i residenti di Mariupol nel film parlano russo, tranne il poliziotto che accompagna i reporter. Parla l’ucraino quando si rivolge alla camera, lanciando messaggi con la richiesta d’aiuto. L’esercito russo, venuto per “salvare dalle vessazioni la popolazione russofona” sta massacrando proprio quella fetta dei cittadini ucraini che parlava russo come prima lingua. È amara ironia vedere a Mariupol le vie intitolate agli scrittori russi, bombardate dai russi. 

Alla fine il regista condivide con noi la domanda che gli chiederà un giorno sua figlia, ma che in realtà riguarda ciascuno di noi: “Che cosa hai fatto per fermare questa violenza sadica?” Lui si è augurato di poter rispondere, e credo che l’Oscar sia già una risposta degna.

Ma la violenza non si è fermata. Perché non bastano le preghiere e i reportage, finché non ci sarà un risveglio delle coscienze che guarderanno la società ucraina – e quella russa, che è la causa primaria della sofferenza inflitta, – senza nutrire vane illusioni di soluzioni facili e dare finalmente quel sostegno decisivo che gli ucraini chiedevano ancora due anni fa. Servono persone pronte anche solo ad informarsi, o, perlomeno, che andranno a vedere “20 giorni a Mariupol”.

©RIPRODUZIONE RISERVATA