La disperazione è un’emozione complessa e profonda che può manifestarsi in vari contesti della vita umana. Una delle analisi più importanti di questa esperienza emotiva è opera del filosofo e teologo danese Søren Kierkegaard che ne parla diffusamente in “La Malattia per la Morte”. Secondo l’autore non si tratta semplicemente di una tristezza passeggera o una reazione emotiva temporanea, ma è una condizione esistenziale profonda. Egli sostiene che un uomo tocca la disperazione quando è consapevole della propria libertà e dell’infinità delle possibilità che questa libertà comporta, ma allo stesso tempo si sente impotente o incapace di realizzare appieno il proprio potenziale. Si tratta quindi di una tensione paradossale tra la consapevolezza delle proprie potenzialità e l’incapacità di realizzarle. E in questo sarebbe, appunto, una malattia mortale dello spirito.

Una rilettura di alcuni dei modi in cui si manifesta la disperazione secondo Kierkegaard attraverso le lenti della teoria degli archetipi junghiana può aiutare a vedere quanto questo tema sia ancora profondamente attuale nella stanza di analisi quanto nella vita quotidiana. Tre sono gli archetipi che più risuonano con la teoria del filosofo danese: la Persona, il Fanciullo e il Guerriero.

Disperazione per qualcosa di terreno: la persona

Questa prima forma di disperazione è quella di chi non vuole essere se stesso e fa di tutto per essere un altro da sé. Un individuo che si adatta alle situazioni con la facilità con la quale cambia abito, ma sotto le vesti non sa chi sia. È il regno dell’archetipo della Persona, termine che deriva dall’etimo latino persona che designa la maschera teatrale indossata dagli attori per assumere ruoli diversi. Ma in questo caso non si tratta di teatro, ma della vita quotidiana e questa disperazione per ciò che è terreno è quella propria dell’uomo che non conosce se stesso, se non per le maschere sociali che indossa. Questa tipologia di individui dedica la vita a perseguire status e riconoscimento da parte degli altri per sopperire al vuoto di un’identità genuina con la quale non riesce a mettersi in autentico contatto.

È una persona tra le altre, uno tra i tanti anche quando eccelle, esperto nel trasformarsi e adattarsi alle richieste del mondo esterno, ma nel fare ciò dimentica chi è e non trova il coraggio di esprimere la sua individualità. Un’esistenza spesa a perfezionarsi e realizzare obiettivi, spesso anche con successo, che però cela un’identità che esiste solo se riconosciuta dagli altri.

Frequentemente nelle stanze di analisi si osservano individui che incarnano l’archetipo della Persona. Sono individui talentuosi e spesso di successo nel proprio lavoro, ma che vivono uno stato di profonda inquietudine per il fatto che ritengono di dover essere felici e soddisfatti per l’approvazione ricevuta da parte degli altri e per i traguardi raggiunti, ma non riescono a entrare in contatto con il vuoto interiore di un Sé che vorrebbe esprimersi oltre al solo ruolo sociale.

Molti di questi individui subiscono il pieno effetto della disperazione quando la vita, impietosamente, toglie loro la maschera, lasciandoli senza un riferimento identitario. Ciò si vede spesso in professionisti realizzati che, di fronte a carriere fallite o concluse (anche solo per sopraggiunta età pensionistica), perdono ogni certezza che pensavano di avere accumulato e non sanno più chi sono.

Con il dilagare dei social media questa forma di disperazione è sempre più diffusa. I giovani in primis, ma anche gli adulti, sono costantemente messi a confronto con influencers, attori, modelle, celebrità che dettano dei canoni, spesso irrealistici, a cui adattarsi, pena il giudizio, l’emarginazione e il rifiuto: ciò che conta è quale maschera indossi e come la sai portare.

Disperazione per la debolezza: il fanciullo

Kierkegaard ritiene che questo genere di disperazione sopraggiunga quando la persona riconosce di essere debole di fronte ai propri desideri terreni, ma al posto di provare a comprendere se stessa, si dispera per la propria debolezza. Le manifestazioni di questa disperazione sono variegate ed eterogenee, ma riconducibili tutte alla poliedricità dell’archetipo del Fanciullo.

Una modalità in cui si esprime questo Fanciullo è quella del puer aeternus (o, al femminile, della puella aeterna) che abdica a ogni responsabilità assumendo un ruolo passivo nella propria vita. Sono persone che, anche se l’età anagrafica è quella di un adulto, sono restate psicologicamente dei bambini desiderosi di compiacere le figure genitoriali o autorevoli. Rinunciano alla propria forza e la mettono a disposizione degli altri, finendo anche per essere usati.

Spesso cercano relazioni con persone fortemente autoritarie e acconsentono passivamente di plasmarsi a immagine di compagno o di compagna che il coniuge vuole. Costantemente offrono un’immagine di sé fragile, innocente e passiva, e anche quando provano a ribellarsi rimangono nel ruolo di vittima perché sono le prime ad accusarsi e compatirsi per aver provato a cambiare.

Le persone imprigionate in questa disperazione devono quindi abbandonare il ruolo di spettatore della propria vita e trovare quella forza interiore che spesso dimenticano di possedere.

Foto da Pexels di Ahmed Akacha

Disperazione dell’ostinazione: il guerriero

Ora l’identità non viene più dall’esterno, ma proviene dall’interno dell’individuo che vuole disperatamente governare se stesso creando e plasmando la propria immagine sulla base dell’autodeterminazione cosciente. Questo individuo ha una volontà forte e lotta per realizzarla e non riconosce potere al di fuori della propria capacità di cambiare le cose. Siamo qui di fronte al Guerriero (o, al femminile, all’Amazzone/Valchiria).

La disperazione dell’ostinazione avviene perché il controllo che il Guerriero pensa di avere è solo una chimera. Non è possibile decidere di accogliere solo i lati di sé più desiderabili e coi quali vorremmo identificarci, rinnegando quelli più ripudiati e indesiderati. Ogni sforzo in questo senso non ammonta ad altro che a alla costruzione di castelli in aria destinati a crollare sotto il peso di quelle parti di noi che, negate, si fanno sempre più insistenti e prepotenti.

Questo approccio può però avere dei lati positivi, soprattutto in una società nella quale è esaltata la capacità di ottenere quanto voluto e, infatti, caparbietà, costanza e forza del Guerriero sono tratti molto desiderabili. Tuttavia, esiste un altro lato oscuro di questi sforzi che accresce ulteriormente la disperazione dell’ostinato: il Guerriero vive per il conflitto e ha bisogno dello scontro per esistere e, pertanto, non può permettersi di giungere a una vittoria definitiva. È un Don Quijote che non può esistere senza la lotta contro i mulini a vento.

Foto da Pexels di Antonio Friedemann

Queste persone riconoscono le difficoltà e i tormenti della vita, ma non sono capaci di vivere senza di essi. Non chiedono aiuto oppure, se si rivolgono a qualcuno, non sono realmente disposte a cambiare perché preferiscono la compagnia della loro disperazione. Si crogiolano nella rabbia per la propria miseria nutrendosene fintanto che possono pensare di poter decidere chi sono e cosa non sono. In aperta ribellione contro l’esistenza, il Guerriero, anche se corteggia la morte, la teme perché significherebbe la fine della interminabile guerra e della costante sofferenza con cui inconsciamente si identifica.

Chi attraversa questo vissuto è quindi chiamato a riconoscere che il controllo esasperato è una finta forma di forza e sicurezza e che bisogna aprirsi anche a ciò che non si può dominare. Nel fare ciò si compie qualcosa di simile a quello che Kierkegaard definisce una “salto nella fede”: affrontare e accogliere anche gli aspetti di noi che vorremmo negare o reprimere. Riconoscere le proprie parti indesiderate non significa però lasciar loro libero sfogo, ma giungere a un Sé più maturo che integra aspetti positivi e negativi in un’immagine ricca nelle sue diverse sfaccettature.

© RIPRODUZIONE RISERVATA