Dal 26 gennaio è nelle sale La seconda via, del regista Alessandro Garilli, prodotto da Angelika Vision in collaborazione con Rai Cinema e RS Productions.  Uscito in concomitanza con la prima celebrazione della Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli Alpini, La seconda via è il primo film dedicato all’esperienza di questi soldati italiani dopo la disfatta di Nikolajewka nel 1943. L’opera è stata finalista al Premio Solinas e selezionata agli European Days di Torino.

Nel cast figurano Ugo Piva, Nicola Adobati, il veronese Sebastiano Bronzato, Simone Coppo, Giusto Cucchiarini, Stefano Zanelli, e la partecipazione straordinaria di Neri Marcoré, accanto a Nina Pons, Anna Orso e Melania Dalla Costa.

Girato prevalentemente in quota, sulle montagne abruzzesi, in un paesaggio di un biancore infinito, innaturale, in mezzo a una reale e fortuita tempesta di neve, complice una musica avvolgente, composta da Elisabetta Garilli e Francesco Menini, la pellicola induce gli spettatori allo smarrimento emotivo e alla confusione tra realtà e sogno.

Una ritirata sospesa nel tempo

Ma come per i libri, che è meglio leggere, così i film non si raccontano completamente, perciò chiediamo al regista la scelta del titolo, che ne ha determinato contesto e atmosfera.

Il regista Alessandro Garilli, originario di Valeggio sul Mincio, alla presentazione de La seconda via nel Cinema Teatro di Santa Teresa, Verona.

«Ho letto molto della sterminata letteratura sull’argomento – racconta Garilli – ma non esisteva un film sulla ritirata degli alpini del 1943. Provò anche Ermanno Olmi, avvalendosi della sceneggiatura di Mario Rigoni Stern, senza riuscire però a realizzarlo. Ho poi conosciuto dei reduci e viaggiato nella zona del Voronež, dove si sono svolti i fatti.

Volevo che dalla visione emergesse la perdita della concezione del tempo. Egisto Corradi ne La ritirata di Russia, uscito nel 1981, dice che “il tempo non esisteva” e Cristoforo Moscioni Negri in I lunghi fucili, del 1956, scrive che “ormai siamo usciti dal tempo”. Ancora prima Mario Rigoni Stern ne Il sergente nella neve, uscito la prima volta nel 1953, ha scritto una frase per me molto importante: “C’era la guerra, la guerra dura, ma io non vivevo la guerra, vivevo le cose che sognavo e che erano più vere della guerra“».

Dentro il deserto di neve

«Ecco, La seconda via è questo – continua Garilli – perché camminando in un deserto di neve, ora dopo ora, giorno dopo giorno, quello spazio da fisico diventa mentale, per potersi rifugiare dentro e sopravvivere. Volevo portare il pubblico in quella zona segreta, privata, quello spazio metafisico contrapposto ai passi lenti, pesanti, sulla neve».

La gestazione e realizzazione del film è stata segnata da svariati problemi ed è durata sedici anni, ma ora il film, proiettato a Verona il 29 gennaio in anteprima cittadina e replicato il 30, sempre al teatro Santa Teresa in Borgo Roma, è pronto per essere conosciuto anche nelle scuole, per portare memoria e consapevolezza tra i giovani. A grande richiesta, domani, mercoledì 1 febbraio, alle ore 18.30 è prevista una nuova proiezione, i cui biglietti si possono prenotare sul sito del teatro.

Il trailer del film La seconda via.

Un film per la pace e la fratellanza

«Nel lavoro di regia – continua il regista – mi sono sempre chiesto se sarei stato capace di capire e rendere il dolore dei soldati e delle loro famiglie a casa. La seconda via vuole anche essere un piccolo fazzoletto per asciugare le lacrime delle mamme che non hanno visto tornare i loro figli. E mi piacerebbe che questo film contribuisse alla costruzione della pace e della fratellanza».

Ma di guerra parliamo e quella era guerra di invasione da parte di noi italiani all’Unione Sovietica, adesso proviamo indignazione perché la Russia ha invaso l’Ucraina, qualcosa stride e sembra non tornare nella narrazione.

La locandina del film La seconda via, ora in distribuzione in diversi cinema italiani. Per sapere i luoghi di proiezione, si può consultare la pagina Facebook dedicata.

«La voce russa si perde nel film, – precisa Garilli – ma non per avallare lo stereotipo degli “italiani brava gente”, che però ha una base di realtà storica, almeno in Russia, poiché la popolazione locale ha trattato meglio gli italiani rispetto ai tedeschi, proprio per il diverso modo di condurre la guerra. I soldati mandati al fronte erano per lo più giovani di diciotto, diciannove, venti anni, strappati alla loro povertà di montanari, che hanno trovato un popolo molto prossimo nella povertà e ci sono molti racconti che lo testimoniano. Nei villaggi restavano solo le babushka, le nonne o le mamme, gli uomini erano tutti a combattere, e vedevano perciò in quei giovani i loro figli, nipoti, mariti».

«Non va dimenticato che noi siamo stati gli invasori, – conclude Garilli – però non ho voluto porre un accento politico o di altro tipo, piuttosto ho voluto imprimere un taglio umano. Per me, che si tratti dei sei ragazzi italiani che si vedono nel film o di sei soldati russi, è esattamente la stessa cosa. Questa era la mia idea del film».

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