La città intera, nei bar e sui social, da giorni non parla d’altro . E non poteva essere altrimenti, visto che “Love in the villa”, il film targato Netflix primo in classifica, è quasi totalmente ambientato a Verona.

La pellicola, girata un anno fa con l’impiego di numerose comparse veronesi, è una semplice commediola romantica americana dal finale a dir poco scontato, che rinverdisce i fasti – si fa per dire – di migliaia di film già prodotti in passato e del tutto simili per ambientazione e trama. A cominciare dal predecessore “Letters to Juliet”, anch’esso girato in buona parte in riva all’Adige, che però annoverava fra le sue fila attori come Amanda Seyfried, Gabriel Garcia Bernal, Franco Nero e Vanessa Redgrave. Un cast di buon livello che, in quel caso, salvava almeno in parte il film, per il resto non memorabile.

Questa volta a salvare il prodotto non c’è stato nemmeno il cast, composto più che da illustri sconosciuti da attori veramente mediocri. Unica nota positiva è la città Verona, immortalata da una fotografia un po’ troppo patinata ma splendente, che regala agli spettatori tutto il fascino e la bellezza del capoluogo scaligero, in questo caso scenario ideale in cui dipanare la vicenda dei due innamorati. I quali vivono la classica relazione di amore-odio fino al prevedibile lieto fine. La storia in sé non propone insomma alcunché di originale, ma non è stato questo a far storcere il naso ai veronesi.

Una distorsione dietro l’altra

La maggior parte dei commenti di questi giorni si sono concentrati soprattutto sulle numerose “distorsioni” che il film ha riportato, vuoi per esigenze narrative vuoi (soprattutto) per proporre al pubblico americano i soliti cliché sull’Italia e gli italiani: insomma, si sfiora ancora una volta il mitico terzetto “mafia-pizza-mandolino”, che tanti danni ha fatto all’immagine del nostro Paese. Si comincia, in questo caso, con l’aeroporto di Verona presentato come caotico e trafficato (e chi lo conosce non può che sorridere di questa rappresentazione), si prosegue con improbabili personaggi che gesticolano animatamente e che corrono in auto come se fossero su dei kart per le strette vie del centro città e con una casa invasa dai gatti, manco fossimo in un antico tempio egizio o un’odierna isoletta greca. E l’elenco delle “castronerie” potrebbe essere molto più lungo.

Gli errori nella pellicola – ammesso che si sia trattato veramente di errori e non di scelte volute dal regista Mark Steven Johnson o dagli sceneggiatori – sono davvero tanti ma è nota l’abitudine degli americani a non preoccuparsi poi molto della realtà nella rappresentazione cinematografica di luoghi o avvenimenti quando si cimentano in questo tipo di “sguardi” sulla nostra amata (soprattutto da loro) Italia o Europa. Quello che vogliono fare, in questi casi, è solo vendere un prodotto, non certo raccontare qualcosa di veritiero.

L’importante, per loro, è quindi creare un’opera che sia facilmente fruibile dal LORO pubblico, soprattutto quello dai gusti meno raffinati a cui è evidentemente destinato il film. Peccato, anche perché spesso in passato gli americani hanno dimostrato di essere attratti da tutt’altro. Si pensi anche solo ai premi Oscar vinti da Gabriele Salvatores con “Mediterraneo” o da Paolo Sorrentino con “La grande bellezza”. Film in cui gli italiani si sono raccontati senza filtri, presentandosi per quello che sono con tutti i loro difetti e tutti i loro pregi. Senza creare macchiette ad uso e consumo “ammmeregano” o ammiccare a ciò che “pensiamo che gli altri pensino che noi siamo”. Se in quei casi il pubblico a stelle e strisce ha apprezzato, ci si chiede perché loro, che sono senz’altro capaci di realizzare film di altissima qualità come forse nessun altro nella storia del cinema, quando raccontano l’Italia non provano a fare altrettanto invece che fermarsi ai soliti stereotipi? Sarebbe davvero interessante imbattersi in qualche prodotto di questo tipo, più approfondito, con uno sguardo d’oltreoceano, non condizionato dalla necessità di vendere a tutti i costi qualcosa.

Kat Graham, una dei due protagonisti del film

Marchi veronesi e non solo

Quello che, infatti, lascia perplessi più di ogni altra cosa è l’operazione di puro marketing che il film suo malgrado rappresenta. Non c’è stata mai, probabilmente, alcuna volontà di creare un prodotto artistico. Neanche lontanamente. Si tratta solo di pura pubblicità e niente altro. Non solo in senso turistico generale per la città di Verona, che risulta la vera protagonista del film, ma per l’ingombrante e spesso fastidiosa presenza di alcuni marchi ed esercizi commerciali del nostro territorio che evidentemente avranno, all’epoca della produzione, sostenuto adeguatamente la realizzazione del film.

Dal noto albergo definito più volte “il migliore di Verona” (e chissà cosa avranno pensato, durante la visione, gli altri albergatori della città) alla catena di gelaterie il cui marchio appare in bella vista su una coppetta, per finire con il celebre ristorante di Corso Cavour passando per le tante etichette sulle bottiglie di vino, lo stesso Vinitaly e via dicendo. Certo, fra una marchetta e l’altra si riesce persino a infilare un cannolo siciliano (che pare abbia particolarmente scandalizzato il pubblico veronese), il pecorino romano, una bottiglia di Barolo e una di Chianti, la pizza napoletana, i macaron francesi e molto altro. Anche quando siamo al cospetto di una veronesissima “pastissada de caval”, ci sorprendiamo nello scoprirla rossa come il pomodoro. Dev’essere una ricetta adattata per l’occasione.

Non siamo degli ingenui puristi e da quando il marketing è entrato nel cinema fin dagli anni Settanta, non ci si stupisce più di tanto nel vedere questo o quel logo comparire all’interno dei film. Anzi, in certi casi (si pensi solo alla mitica Aston Martin di James Bond) quella che inizialmente era nata come un’operazione pubblicitaria è diventata nel tempo essa stessa parte narrativa. Quasi sempre, però, si è cercato di giustificarne la presenza inserendone l’utilizzo in modo funzionale alla storia, per creare uno spot che avesse anche un significato artistico. Uno sforzo del tutto assente in “Love in the villa”, dove gli sceneggiatori non sono arrivati nemmeno al minimo sindacale e si sono limitati a schiaffare in faccia agli spettatori i nomi dei loro sponsor.

“È il cinema, bellezza!”

Una rappresentazione plastica delle incoerenze che abbiamo raccontato è data dalla colonna sonora: un’accozzaglia di brani napoletani, canzoni dance e cover in italiano di celebri pezzi originariamente composti in inglese o francese e poco altro. Un ibrido senz’anima, insomma, che peraltro poco si sposa con l’atmosfera romantica che si voleva creare.

Ci sorprendiamo? No di certo. Il cinema è da sempre tante cose. A volte sa essere arte sublime come poche altre cose al mondo, capace di emozionare gli animi più duri. Tante altre, purtroppo, rimane soltanto business. Ma ci sono molti modi per fare business nel cinema. Se l’intento di “Love in the villa” era quello di veicolare negli Stati Uniti e nel mondo l’immagine della nostra città, si può affermare che l’operazione sia riuscita? Forse sì, visto che fra le migliaia di commenti intercettati in rete tutti, indistintamente, hanno elogiato la bellezza di Verona. Ma questa innegabile bellezza non può ammorbidire una valutazione che altrimenti risulterebbe meritatamente troppo drastica.

A ben pensarci, se un prodotto è di scarsa qualità, a quello stesso prodotto verrà inesorabilmente associato tutto ciò che lo circonda e quindi, in questo caso, anche l’inconsapevole scenario in cui si svolge la storia. È una vecchia regola pubblicitaria su cui si fonda, ad esempio, la scelta dei testimonial per veicolare un determinato prodotto: un’immagine positiva viene associata all’oggetto da vendere.

Mutatis mutandis, se il film è scarso, e in questo caso il film è il testimonial, il prodotto verrà percepito come scarso. Un po’ tirata, forse, ma riteniamo che in futuro sia meglio pensarci bene prima di concedere nuovamente le splendide strade e piazze del nostro centro città a qualche produzione internazionale, che magari poco o nulla sa di ciò che realmente siamo.

Meglio affidarsi solamente a chi può portare all’ombra dell’Arena produzioni di vera qualità, seguendo il vecchio adagio “less is more”. Centellinare, ma con giudizio, per avere sì qualcosa in meno con lo scopo di ottenere, alla lunga, qualcosa in più. Un faro, questo, che dovrebbe sempre illuminare le decisioni dei nostri amministratori.

Piazza Erbe, una delle immancabili location del film “Love in the villa”

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