La serie Il Signore degli Anelli – Gli Anelli del Potere è andata in onda dal 2 settembre al 14 ottobre 2022 in 8 episodi. Una scelta economicamente coraggiosa – si parla di 58 milioni di dollari per episodio (fonte Variety) – che tratta un periodo poco conosciuto e trattato del mondo fantastico di Tolkien partendo da una discreta mole di opere su cui Amazon ha ottenuto i diritti: La Compagnia dell’Anello, Le Due Torri, Il Ritorno del Re, le Appendici e Lo Hobbit. C’è quindi tutto l’indispensabile (soprattutto Le Appendici).

L’attore Ugo Bologna

Com’è però effettivamente andata?

Come avrebbe detto il Direttore di Fantozzi, il Conte Corrado Maria Lobbiam, Male, per Dio! (Secondo tragico Fantozzi).

Il fatto è che l’opera è, per un tolkeniano di stretta osservanza, irricevibile. Non mi riferisco tanto o solo al legame tutto arbitrario tra mithril e linfa elfica, quanto al fatto che i personaggi sono stravolti, con invenzioni non essenziali dilatate all’inverosimile e di per se stesse inverosimili, come l’avventura in mare aperto di Galadriel che rischia a momenti di diventare il mito biblico di Giona e la balena, o con passaggi che ricordano da vicino Lo Svarione degli Anelli, parodia della trilogia, al punto che si arriva a far dire a un cittadino numeroreano tarchiato, tozzo, con barba e capelli corti nella pubblica piazza: “Gli elfi ci rubano il lavoro” (Sic!).

Inverosimile che naviga – sul modello già risibile ai tempi di 300, l’alba di un impero – su tre piccole barchette numenoreane che portano sulla Terra di Mezzo decine di cavalieri armati di tutto punto.

Tutto è prevedibile

Una caricatura presente in rete

Come ormai è prassi, quello che in Tolkien è un evento unicum e funzionale a un grande disegno di alleanza tra due popoli, ovvero l’amore interrazziale tra uomo ed elfo (Aragorn e Arwen), diviene ormai uno standard per cui ogni produzione oggi prevede una coppia interraziale (nel film Lo Hobbit – La desolazione di Smaug, l’amore tra l’elfa Taurien [personaggio inventato ad hoc] e il nano Kili); qui tra un elfo (Arondir, personaggio inventato ad hoc) e un’umana.

Per un non profondo conoscitore della saga, molto sa di già visto. Varie scene di tensione e pathos sono assolutamente prevedibili, il ritmo è molto lento (almeno per più della metà della serie). Anche scene potenzialmente esplosive come l’assalto della cavalleria numenoreana, che si riallacciano esplicitamente a scene della trilogia di Jackson, non hanno quel fascino che dovrebbero avere.

La battaglia tra l’esercito degli orchi e il regno di Numenor viene ridotta per dimensioni a una lite di condominio: forse avevano finito il budget. Se da una parte, per la parte degli intrighi e della riflessione del potere, nelle intenzioni almeno il rimando è a Il trono di spade, dall’altra il risultato è molto meno intrigante e coinvolgente per dei dialoghi che spesso rimangono sospesi tra il banale e l’incompleto, nel tentativo mancato di essere sentenziosi.

Manca la cura nei dettagli per la credibilità

Gli orchi hanno un fiuto finissimo e sentono mille sfumature tranne naturalmente il goffo ragazzino nascosto a qualche metro, che si salva al solito per un rumore casuale nelle vicinanze, e gli elfi adottano una sorta di Kung Fu elfico negli scontri fisici neanche fossero Ip Man. Infine, se si lotta e combatte per un terribile manufatto del male, risulta poco credibile che, nonostante passi di mano in mano ai protagonisti (Galadriel, Arondir), nessuno abbia l’accortezza e trovi un minuto per controllare quanto contenuto, fosse anche solo per curiosità considerato il sangue che è costato.

Ma a non dover mancare in un’opera come questa, e che invece manca, è il senso epico e del non detto, problema quest’ultimo figlio dei nostri tempi e che è elemento inscindibile del genere fantasy.

Qui, di contro, non si ammette che qualcosa non possa essere spiegato razionalmente, che rimanga nel vago e nell’a-scientifico, nel mistero: così, la nascita di Mordor non è un effetto della presenza di Sauron bensì di un meccanismo idraulico ben preciso; il tarlo che rode gli elfi nel loro autunno è una questione risolvibile con la cristalloterapia. Tutto ciò, a mio avviso, è frutto avvelenato dell’albero della saga di Star Wars, quando la potenza degli Jedi venne legata alla conta dei midichlorian a partire da La minaccia fantasma (1999), logica che condivide le dinamiche di gioco di un role-playing game.

Il cast e i personaggi

Non basta che i protagonisti siano eternamente tormentati per ottenere un racconto avvincente: Galadriel (Morfydd Clark) è irritata e irritante all’ennesima potenza (lontanissima e irriconoscibile la versione di Jackson con Cate Blanchett); i nani devono sempre essere macchiette da cui ricavare elementi buffi anche quando si chiamano Durin IV (Owain Arthur, bravo peraltro) o macchine rose dal calcolo cinicamente politico, come suo padre. Elrond (Robert Aramayo) alla fine è l’unico personaggio davvero centrato con un personaggio che ricorda il Legolas della trilogia.

Tra gli umani, Elendil (Richard Lloyd Owen) pare pienamente nella parte nel suo recitare sobrio, da soldato, mentre il figlio Isildur (Maxim Alexander Baldry) e la combriccola di amici fanno tanto teen drama ed è già una fortuna che non si viri (ma aspettiamo le prossime serie) al teen comedy.

Casa contadina nel Midland England.

C’è qualcosa da salvare?

Sì. A far rimpiangere l’occasione mancata sono scenari e ambientazione, decisamente di qualità e suggestivi nella resa “medioevalista” della saga, con riferimenti visivi che vanno dagli antichi villaggi inglesi delle Midlands alle antiche città bizantine; oppure qualche trovata visivamente interessante, come la creazione del Monte Fato. Nemmeno l’idea dei Pelopiedi come “paleo” progenitori nomadi, allegri quanto spietati, è disprezzabile. E piuttosto bene è stato pure celato Sauron, qui ancora Annatar, Signore dei Doni, in un’ultima puntata meno soporifera del solito. Ma sono scintille nel buio.

Nota a margine

Dicevamo del cast. Un tolkeniano di stretta osservanza sa che per Tolkien il colore della pelle è moralmente caratterizzante: gli esseri del male sono scuri, umani compresi, come il popolo degli Haradrim.

La scelta quindi di un cast popolato da personaggi che fisicamente cozzano con questo principio (l’elfo portoricano, la regina Miriel di Numenor e la moglie di Durin IV afrodiscendenti per esempio) mostra come lo sbandierato principio di fedeltà allo spirito e alla lettera del testo sia in realtà stato travolto dallo schiacciasassi dell’effetto di piattaforme come RAISE (Representation and Inclusion Standards Entry Platform) e ARRAY Crew per costruire cast e troupe bilanciati per genere ed etnia secondo una rigorosa logica da manuale Cencelli.

Per carità, non c’è nulla di male nel vedere sullo sfondo della Terra di Mezzo o tra i cittadini di Numenor comparse cinesi, giapponesi, samoane. Deve però essere detto, senza ipocrisia, che si tratta dell’asservimento dell’opera a criteri che, molto spesso, sono causa della rovina di molte serie tv costrette ad anteporre esigenze estranee alle dinamiche narrative.

Esemplare, in questo senso, è la rigida spartizione delle quote etniche in serie tv come Walking Dead che permetteva con una certa precisione di indovinare, morto un personaggio, le caratteristiche del suo rimpiazzo. Similmente, in Il Signore degli Anelli – Gli Anelli del Potere, nelle posizioni di rilievo del potere o di spicco del ruolo questo principio etnico e di genere si applica in modo rigido e quasi al 50%.

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