Incontriamo Stefano Paiusco, attore, autore, regista e docente teatrale. Attualmente anche direttore del CEA, Centro di Educazione Artistica “Ugo Zanoni” di Verona, Paiusco ci offre spunti di riflessione per una crescita culturale che da Verona possa diffondersi ad ampio raggio. Altrettanto, in maniera diretta, ci offre uno spaccato disilluso di una situazione collettiva difficile. Professionista di raro calibro ha toccato innumerevoli corde drammaturgiche, affrontando, dalle origini a oggi, ogni genere che il Teatro offre. Una sua opera, dedicata alla parola nell’arte, è al Mart di Rovereto.

Recentemente hai presentato Il potere dei più buoni, un omaggio a Giorgio Gaber. Già in anni passati ti sei confrontato con la sua opera. Cosa significa affrontare un autore sempre più attuale?

«Non è un omaggio Gaber. Tengo a precisare questo aspetto perché tutto il panorama italiano continua a parlare di “omaggio”, spesso accostato ad autori come Gaber. Il mio è uno spettacolo di Gaber-Luporini, autori teatrali a tutti gli effetti, che hanno portato la formula del Teatro Canzone in Italia, un modo di fare spettacolo nato molti secoli fa in Grecia e poi, nel Novecento, diffuso da Yves Montand  e dal fiammingo Jacques Brel, a cui Gaber si ispirò moltissimo. “Omaggio”, “affettuoso omaggio”, sono discorsi che dovrebbero essere lasciati perdere. D’altra parte mai si è sentito dire “un affettuoso omaggio a Luigi Pirandello”? No, e non avrebbe senso. Affrontare un autore così attuale significa raccontare l’oggi. Sembrerà impossibile, ma Gaber e Luporini avevano previsto tutto ciò che stiamo vivendo ben quarant’anni fa. Erano dei grandi pensatori, analizzavano con sagacia e ironia la loro epoca. Giovan Battista Vico ci ha insegnato che la storia non cambia e si ripete. Il potere dei più buoni è un pezzo di una ventina d’anni fa ed è di un’attualità sconcertante.»

Una delle più significative prove d’attore è il monologo La Volgarità, tratto da Il Grigio, del medesimo autore. Cos’è oggi quella che Gaber definiva come “la volgarità di tutto”? 

«La volgarità è oggi quella dei politici che si scannano in televisione con insulti tali da far vergognare. La pornografia contemporanea è quella delle parole, non quella delle immagini. Pornografia e volgarità è il non sapersi confrontare, è la fuga dal dialogo, dalla parola. Basti pensare che oggi rimpiangiamo i “Forlani” e gli “Andreotti”, eminenze grigie e misteriose che quantomeno sapevano parlare in maniera educata. Oggi si twitta, si inventano le cose. I grandi personaggi sapevano porgere le parole a servizio del confronto, oggi si cerca la provocazione.»

E chi inventa un mestiere e una professione? Chi non tutela la arti? Anche questo è concettualmente “volgare”.

«Chi si improvvisa certamente è da annoverare nelle “volgarità” moderne. Tornando al discorso di prima, sovente si sente pronunciare, nell’ambito di un cosiddetto omaggio “scusate se non sono come lui”, “scusate le imperfezione”. Non c’è nulla da scusare, se non si è capaci non si deve affrontare qualcosa che non è alla propria portata. È come mettere in scena Cechov e scusarsi se si è imperfetti. Se si è scadenti in un’ arte si può benissimo fare dell’altro. Ci sono tanti passatempi, il teatro lasciamo fare a chi è capace.» 

II Teatro Civile è una delle più valide espressioni del Teatro Contemporaneo. Eppure sono quasi troppi gli spettacoli che fanno capo a questo genere, mentre una volta eravate in pochi a rappresentarlo. Questa diffusione è una necessità per combattere ciò che spesso ci viene nascosto o rappresenta un rifugio per chi ne vuole cavalcare l’onda?

«Ho smesso di fare Teatro Civile e di denuncia per questo motivo. In questi anni sono saltati fuori da ogni angolo persone che avevano da raccontare una storia. Per sostenere un monologo di questo tipo ci vuole grande preparazione altrimenti non reggi il confronto. Ho sentito attori molto bravi, con una scuola alle spalle ma anche troppi improvvisati. Il Teatro Civile è il teatro dei “cives”, dei cittadini. Con il mio monologo sulla strage di Bologna ho girato tutta l’Italia per cinquecento repliche e altrettanto quello sul Monte Ortigara, ma a un certo punto ho detto “stop”. Mi sono fermato quando questo genere stava diventando appannaggio di chi lo propone, perlopiù, perché non sa cosa mettere in scena.  Il Teatro Civile è un termine sbagliato, che venne coniato da Marco Paolini. Sarebbe più corretto parlare di “Orazione Civile” o, come disse Sandro Luporini, di “Teatro Evocativo”, dal momento che si evocano storie.» 

Sono tante le scuole di preparazione al mestiere dell’attore. Un segnale positivo sembra venire dai numerosi giovani che studiano duramente nei Corsi e Accademie, a dispetto di chi tenta la strada dei talent per bruciare le tappe, con risultati effimeri. Quali suggerimenti daresti a questi giovani per avvicinarsi al mondo del teatro con la giusta maniera e il rispetto?

«Il primo suggerimento che darei è di cambiare mestiere. Oggi più una persona studia e si prepara più rimarrà delusa. Viviamo nell’epoca della mediocrità. Si cercano visibilità e popolarità, non il talento. Una volta il successo era conseguenza della preparazione, oggi no. Se ti fermassero per strada per dirti “complimenti, lei è il più schifoso”, potresti quasi sentirti gratificato nell’essere riconosciuto. Oggi si passa dalla televisione, dal web.»  

Ci sono tanti che ci credono però…

«Suggerirei allora di studiare. Se l’amore è così forte da essere necessità,  allora l’unica ancora è lo studio. Ma bisogna mettersi nelle mani di persone giuste. Tanti attori si sono riciclati insegnanti, bisogna stare attenti. Ci sono grandi scuole come il Piccolo di Milano, la Silvio d’Amico, lo Stabile di Genova, realtà a numero chiuso dove entri a fatica. Ci sarebbe poi la Scuola delle Arti e dello Spettacolo del Comune di Verona in seno al CEA, che è nel programma dell’Amministrazione, ma deve ancora essere avviata.»

Tornando al tuo lavoro, la formazione intrapresa ti ha permesso di essere un attore, nel vero senso del termine. Nel tuo percorso hai affrontato il Teatro Classico, il Moderno, la Commedia dell’Arte, il Mimo, la Giullarata,  il Teatro Civile, la Sperimentazione, il Teatro Canzone, la Prestidigitazione, Il Teatro dei Burattini. Cosa porti di tutte queste esperienze all’interno di uno spettacolo?

«Innanzitutto, a differenza di tanti, non ho avuto un’esperienza accademica. Ho avuto, però, la fortuna di avere dei maestri che mi hanno seguito. In primis ricordo Renzo Lorenzi, amatoriale migliore di tanti professionisti, uomo dalla preparazione straordinaria. Lui, per primo, quando avevo tredici anni, mi mise davanti allo studio della dizione e della fonetica. Poi ebbi la fortuna di incontrare Ave Ninchi, con la quale feci due spettacoli. Quando trovi attrici di questo calibro, felici di darti la loro esperienza, cresci. Poi ho “rubato”, tanto. Ho “rubato” a tutti. I miei punti di riferimento? Il Dario Fo “attore” e autore di Mistero Buffo, Gigi Proietti, Gaber e Luporini. Nei miei spettacoli c’è tutto il mio percorso con queste persone. C’è questo “tutto”. Che si mescola assieme.»

Come è cambiata la formazione e l’offerta da quando sei direttore del CEA? Cosa offrite ai vostri allievi e cosa offre Verona a chi esce da percorsi di questo tipo? 

«Il CEA era una scuola che proponeva molti corsi ma ordinari, di routine. Io ho ripreso il corso di fisarmonica, che aveva una tradizione che derivava da Cesere Galli, che aveva un’orchestra di trenta elementi. Ora abbiamo Thomas Sinigallia, musicista raffinato e di raro talento. Ho anche istituito il corso di “basso” con Pino Carraro, orchestrarle de l’Arena di Verona. Poi tanti altri corsi danza classica, magia, doppiaggio, ascolto alla musica. Abbiamo dato un’immagine di comunicazione moderna, grazie alla collaborazione con Nicola Salerno: un nuovo logo, una comunicazione differenziata tra manifesti e radio. Abbiamo circa 200 allievi, che frequentano corsi pomeridiani e serali. Ccon “Summer Art School” proseguiamo durante l’estate. L’intento per il CEA è di portare i ragazzi a frequentare “L’Accademia delle Arti e dello Spettacolo”, quando questa nascerà. Insegnati qualificati, che, attraverso l’Accademia, possano far nascere un Teatro Stabile per il teatro, per la danza e per la musica. Lo stimolo è verso l’avvio al lavoro dell’Artista, un polo di studio.»

L’offerta veronese tra amatori e professionisti sembra penalizzare chi fa questo mestiere di professione. Cosa si può fare per invertire la tendenza e per dare ai professionisti dei luoghi adatti a valorizzare la loro arte?

«Tanti colleghi che fanno il mio mestiere si sentono chiedere “in che compagnia lavori?”. Questo è un errore, perché la maggior parte degli attori non lavora per uno Stabile. La maggior parte è autonoma e vive “a chiamata”. Assieme al consigliere Daniela Drudi, presidente della Commissione Cultura, ho tentato di dare vita a una riforma del Teatro Amatoriale per l’accesso agli spazi pubblici. Verona ha compagnie amatoriali brave, di un impegno e serietà tali che potrebbero competere e superare i professionisti, ma, altrettante che dovrebbero imparare un po’ più di umiltà e accontentarsi di recitare in altri luoghi. Io credo che non ci sia differenza tra un amatoriale e un professionista, o sai o non sai recitare. La selezione è, pertanto, necessaria per valorizzare chi ha veramente i numeri per richiedere uno spazio pubblico.» 

Quale posto occupano le realtà professionali di Verona? Oltre ai cartelloni di Teatro Romano, Nuovo, Ristori, Filarmonico, in cui sono ospitate maggiormente realtà non veronesi, con i vari Teatri della provincia, l’offerta risulta satura. Eppure manca qualcosa. Verona meriterebbe un Festival dell’Autore Contemporaneo. Basterebbe poco: uno spazio adeguato per ospitare la produzione durante le prove e una quantità sufficiente di repliche per permettere un avanzo. Sarebbe possibile?

«Non è un’utopia. Anche questo è scritto nel programma del Sindaco, per il quale ho contribuito alla stesura almeno per l’ottanta percento. Una cabina di regia, per coordinare tutte le attività che hanno a che fare con concerti, mostre formata da esperti di ogni settore e diretta dall’Assessore alla Cultura. Non possiamo permettere dispersione di energie e soldi.» 

Che progetti hai per il futuro?

«Sono sempre in attività. Ho due progetti: uno spettacolo di  burlesque, cabaret e musicae un nuovo lavoro dedicato alla magia.»

Possiamo rassicurare i lettori che non sarai tu a fare burlesque?

«No, li rassicuro. Saranno coinvolte ballerine bravissime. Lo spettacolo si chiama Cafè Cabaresque. Poi, come dicevo, un nuovo spettacolo di Teatro e Magia con una validissima cantante. Una storia ambientata nel delta del Missisipi.  Una storia che parlerà di voodoo, di Bizarre Magick e di blues. Sarò in scena con la bravissima cantante Stefania Ghizzoni e con il musicista Dan Martinazzi, due compagni di viaggio fantastici.»

Torniamo alle commistioni di cui parlavo..

«Sì, ci saranno tante commistioni, un incrocio di emozioni e suggestioni particolari. Poi ci sarà la tournée de Il potere dei più buoni. Gaber e Luporini sapevano vedere oltre le cose, loro che dissero che ero il loro “figlio” artistico, hanno raccontato una società che non è cambiata.» 

E sul teatro dei burattini?

«È un capitolo importante della mia vita. Ho lavorato per un periodo con Don Marco Campedelli, erede del grande Nino Pozzo. Questo mondo è fantastico, faticoso, richiede decine di voci diverse e uno sforzo fisico dovuto al movimento delle braccia e delle gambe. Una tradizione che, a Verona, porto avanti assieme a Don Marco e Maurizio Gioco e che, mi auguro, venga valorizzata dall’Assessorato alla Cultura.»

Prima consigliavi, in maniera dispiaciuta, a chi si avvia a questo percorso, di lasciare perdere. È il Paese a essere “marcio”, colpa di decenni di politiche nazionali che non hanno sollecitato l’impulso dell’arte. Però, se tu avessi fatto l’impiegato non avremmo avuto tutto ciò che in questi anni hai trasformato in autentiche emozioni teatrali.

«Si, è vero. Ma devi fare i conti con tante cose, con una realtà diversa. Giù dal palcoscenico c’è la vita di tutti i giorni. Ci vuole anche fortuna, i contatti giusti. È una questione di karma… e di calma. L’arte è un insieme di tante cose. La Bellezza chiaramente dovrebbe superare tutto questo, ma non sempre è così.»

Vale la pena lottare per il talento?

«Gaber diceva: “non insegnate ai bambini il talento che è sempre più spento”. In questo momento non mi sento di dare un’indicazione. Ho appena pagato sulla mia pelle molta delusione. Ho tante idee, ma vederle applicate è sempre più difficile. O sei un ottimista che vede il bicchiere mezzo pieno e prosegui o sei riflessivo e razionale e molli tutto. Mi dispiace, non mi sento di dare consigli a nessuno, preferisco lasciarmi trasportare dalla corrente del fiume e attendere, con quel poco di fiducia che mi è rimasta, che qualcosa, prima o poi, cambi perché, come diceva Eraclito, senza la speranza è impossibile trovare l’insperato.»