Cantava così Edoardo Bennato. Riferimento un po’ d’antan, ma che cade benissimo anche in questa stagione. Penso a questo inciso:

“Guarda invece che scienziati
Che dottori, che avvocati
Che folla di ministri e deputati
Pensa che in questo momento
Proprio mentre sto cantando
Stanno seriamente lavorando”.

Il motivo per il quale mi frulli per la mente questa canzone sarà più chiaro tra qualche frase.

Se c’è una cosa che è mutata all’inizio di questi anni Venti è l’abbigliamento. Quello che ci mettiamo addosso oggi – da un anno a questa parte – per assistere a uno spettacolo. Perché questo è stato fino ad ora il concetto di cultura: il teatro, il cinema, i concerti di musica classica, la lirica e tutto l’universo cosiddetto di musica leggera, che muove milioni di persone e di denaro in tutto il pianeta, poi aggiungiamo le mostre d’arte, i vernissage – fagocitati dalla categorie degli eventi.

Partecipare, andare a vedere e sentire. Trovarsi con gli amici, mangiare insieme qualcosa, vivere un’esperienza di svago o di crescita o di appagamento, anche puramente estetico: tutto questo è stato il contorno del fruire cultura, fino al 2020.

Adesso ci si ritrova a casa. In pigiama, in tuta, qualcuno si ribella e fa come-se, sapendo che non basta. Che fingere può essere un bel gioco, ma come si dice, è bello se dura poco.

Verona e la cultura (quasi) rasa al suolo

Verona, come altre città italiane, spesso sedute sugli allori del proprio patrimonio, si è trovata senza parole vere. Stupita, ha cercato di reagire, di reggere il colpo del crollo dei turisti, delle cancellazioni di numerosi eventi già annunciati l’anno prima. La Fondazione Arena ha cercato di dare risposte e ora chiede aiuto alla città.

E così tutti gli enti istituzionali, i nostri “templi” della cultura, che proprio all’afflusso turistico hanno cercato negli anni di offrire un prodotto gradevole, ma che nel tempo hanno rinunciato spesso a promuovere la ricerca, l’innovazione, se non per brevi esperimenti, e hanno scordato di essere innanzitutto luoghi culturali per i cittadini, attendono che passi la buriana.

Un mal tempo che ha invece letteralmente travolto tutto il comparto della cosiddetta cultura indipendente, ovvero le realtà artistiche che, a partire dal volontariato professionale e amatoriale, rendono fertile il territorio, pensando innanzitutto al pubblico che vive la città.

Fare cultura oltre gli orticelli

Se lo Stato continua a dire di esserci e che nessuno resterà indietro – mantra buono per calmare il mal di stomaco, non per curare un’ulcera perforante -, l’amministrazione cittadina è davvero in difficoltà. Non può rispondere a un terremoto simile, non ne ha gli strumenti strutturali. L’assessorato può costruire reti, aprire tavoli di confronto (invito ad aprirne sempre di più, se non ci si incontra è difficile capirsi), ma non è abituato, per un insieme di ragioni che non sempre si possono ridurre alla mancanza di volontà, a co-progettare soluzioni alternative.

E così tutti paghiamo pegno, non solo all’eccezionalità della situazione storica, ma anche alla difficoltà con cui Verona si pensa in modo plurale. Intendiamoci: plurale lo è anche senza volerlo, la ricchezza delle voci, delle proposte è indiscutibile.

Ma credo che ogni veronese, più o meno di lungo corso, sia consapevole di quanti orticelli ci siano da curare.

Ecco, in un anno Heraldo, realtà editoriale che ha appena imparato a stare in piedi vista l’età, ha cercato di entrare in relazione con tante realtà che fanno cultura. Voce alle istituzioni, certo, ma abbiamo dato spazio a chi di cultura vive e per la cultura – teatro, musica, cinema, editoria, arti visive, e molto altro – progetta, innova.

Un anno da questo punto di vista difficilissimo da raccontare. Un anno che mette in evidenza tutto ciò che non va e per il quale è davvero complicato trovare un’opzione diversa. Ma come testata sentiamo anche la responsabilità di incrementare l’arricchimento di chi ci legge – e di noi in primis. Così abbiamo aperto rubriche forse di non semplice e immediata fruizione, ma che mirano a farci abitare un tempo più lento, magari arricchendoci.

Ed è questo lo scopo del recente Il classico dentro di noi, curato dal professor Stefano Quaglia, e di Dante’s speech, un progetto propedeutico a quest’anno in cui Dante viene frullato in mille salse per i suoi sette secoli dalla morte. Provocatoriamente denominato in inglese, perché quel Dante venga tra tutti a fare il suo discorso in pubblico. Giù dal piedistallo, a confrontarsi con i nostri problemi, interrogato e “decodificato” da Mirco Cittadini, che da anni viaggia all’interno della Commedia.

Nei mesi prossimi non cambieremo registro, nella convinzione che gli artisti siano un apripista, l’ariete che sfonda i muri per aprire nuovi punti di visione. La fatica che si fa in questi tempi non si riesce a misurare, però ecco, se mi posso permettere un augurio non solo per la nostra testata ma per Verona stessa, vorrei che ci svegliassimo (ed ecco che mi torna in mente Bennato).

Che gli orticelli diventassero campi condivisi, coesistenti, solidali.

Fertilizziamo questo territorio, se vogliamo nuovi frutti.

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