Spetta agli inquirenti ricostruire l’esatta dinamica di quanto accaduto venerdì pomeriggio a Civitanova Marche, dove Alika Ogorchukwu, 39 anni, che era solito vendere fazzoletti e accendini in una delle vie più frequentate del centro della città, è stato brutalmente aggredito e ucciso da Filippo Ferlazzo, 32 anni, originario del salernitano e domiciliato a Civitanova, che si trovava lì a passeggio con la sua fidanzata.

Fermato e arrestato poco dopo il delitto dagli agenti delle forze dell’ordine, Ferlazzo avrebbe dichiarato che il motivo dell’aggressione sarebbero stati alcuni apprezzamenti fatti dalla vittima alla sua compagna. La circostanza non è stata tuttavia al momento confermata dagli inquirenti, che propendono più per una presunta eccessiva insistenza di Ogorchukwu nel proporre alla donna i fazzoletti e gli accendini che vendeva per vivere.

Ma c’è un punto fermo e incontrovertibile in questa vicenda, che non riguarda solo la vittima e il carnefice, ma che impone piuttosto una riflessione che ci coinvolge tutti come società civile: nessuno dei numerosi presenti sulla scena è intervenuto per impedire che Filippo Ferlazzo uccidesse Alika Ogorchukwu. Nessuno. In molti hanno ripreso la drammatica scena con il telefonino, e nei numerosi video girati dai presenti e diffusi dai media si sente qualcuno gridare “Fermati, così lo ammazzi” e “Adesso arrivano le guardie”. Ma nessuno è intervenuto per bloccare Ferlazzo, e impedire così una morte che certamente si poteva e si doveva evitare.

I presenti hanno assistito all’omicidio come si assiste ad un film o a una serie su Netflix. Hanno utilizzato lo schermo dei loro telefonini quasi a voler “smaterializzare” la realtà di ciò che stava accadendo, inserendo una sorta di filtro tra sè e quella violenza senza senso che si consumava a pochi metri di distanza.

Viene da pensare, nella più ottimista delle ipotesi, che non abbiano saputo valutare in maniera lucida e coerente quelle che potevano essere le conseguenze di un’aggressione che, magari, sarebbe rimasta un’azzuffata da raccontare e mostrare al bar, poiché immancabilmente immortalata in uno di quei video fai-da-te che stanno ormai diventando una sorta di realtà parallela che non prevede azioni, riflessioni, conseguenze. Solo immagini, per una realtà sempre più difficile da comprendere e affrontare.

Quanto avvenuto a Civitanova ci restituisce l’esatta misura di quello che stiamo diventando: una società non più civile, ma personalistica, nella quale un uomo in pericolo è lasciato a sé stesso e al suo destino perché abbiamo perso la capacità di sentirci noi stessi quell’uomo, e quindi di agire di conseguenza per proteggerlo. Ma anche una società dello spettacolo, per citare il titolo di un testo del 1967 del filosofo Guy Debord, evidentemente profetico.

Una società nella quale la morte di un uomo non ci riguarda nemmeno se avviene sotto i nostri occhi, perché la prima reazione che mettiamo in atto è prenderne le distanze filmandola come se fosse un macabro show, in una sorta di meccanismo di alienazione “protettiva”. Ma non ci si dovrebbe proteggere dall’obbligo morale e civile di aiutare chi è in difficoltà, pena la perdita del nostro status di “umani” rispetto alle altre specie animali.

Qui c’entrano relativamente il razzismo e la politica, come da più parti si sente dire in queste ore. Ma c’entra invece molto il compimento di un atavico percorso di alienazione sociale al quale hanno senza dubbio contribuito anche i mass media, in un’orgia di immagini che raffigurano la violenza in ogni sua forma e il cui drammatico effetto è di neutralizzare ogni sentimento di umanità, conducendo ad una barbarie nuova e spaventosa: l’indifferenza. E questo vale per l’omicida, tanto quanto per coloro che non hanno ritenuto di doverlo fermare.

Continuamente esposti alla violenza e alla sua rappresentazione, stiamo finendo per abituarci a considerarla un fatto normale, un fenomeno che come un altro può accadere.

La terribile scena dell’omicidio di Civitano, ripresa da numerosi telefonini di passanti che però non sono intervenuti per fermare Ferlazzo

In una società dove tutto deve apparire per esistere, preferibilmente seguendo canoni omogenei destinati a un’audience che si vuole il più possibile omogenea, estetizzare la violenza equivale a banalizzarla, così come trattare femminicidi, stupri e omicidi nel grande circo mediatico dei salotti tv del pomeriggio, inseriti a caso tra foto di VIP in vacanza e consigli su come perdere peso dopo le abbuffate natalizie, equivale a fare della violenza un prodotto come un altro, che si vende e fa vendere.

E, inutile negarlo, tutti compriamo. E per questo siamo tutti responsabili.

La violenza rappresentata in modo spettacolare, sgargiante, quasi accattivante, sta finendo per compromettere la capacità di mantenere saldo il giudizio unanime sulla sua condanna, e di reagire di conseguenza nel momento in cui quella condanna dobbiamo esercitarla: non vi è infatti alcun dubbio che i presenti avrebbero potuto bloccare Filippo Ferlazzo, anche solo per la loro superiorità numerica, impedendo così la morte di un uomo.

Ma questo non è avvenuto, e dobbiamo chiederci quanto una percezione alterata della realtà, dovuta anche ad un racconto pubblico ormai miserabile nei valori quanto logorroico nella mistificazione dei disvalori, abbia contribuito a far sì che nessuno abbia avuto l’istinto di impedire che un uomo morisse, per futilissimi motivi, in una via dello shopping davanti a decine di “spettatori”.

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