È uscita la data delle prossime elezioni amministrative e vale la pena seguire il filo rosso che lega le istituzioni veronesi con le ultime decisioni di questa amministrazione, valutandole alla luce dei programmi elettorali, considerando che dovranno ereditare quanto deciso in “zona Cesarini” dal sindaco uscente, nonché candidato, Federico Sboarina.

È prossima l’approvazione del bilancio dell’Ente Fiere di Verona, data in cui verrà rinnovato il consiglio di amministrazione, con le nuove regole per cui tanto si è battuto il secondo socio per numero di azioni: la Fondazione Cassa di Risparmio di Verona è infatti riuscita ad ottenere l’aumento del numero dei consiglieri ma soprattutto una nuova governance con l’introduzione di un Amministratore Delegato al posto del Comitato Esecutivo. Un ruolo che si va ad affiancare a quello del Direttore Generale, nella speranza di riuscire a ottenere nomine di qualità per traghettare l’ente dalla storica conduzione che negli ultimi anni ha escluso Verona da ogni tipo di aggregazione e collaborazione territoriale ed allontanare la spada di Damocle da un marchio importante come Vinitaly, perennemente insidiato dalla minaccia di un clone milanese.

La nuova governance

Il periodico online “Il Mattino di Verona” ha fatto però l’ipotesi di nomi che, qualora venissero confermati, dipingerebbero il solito quadro “caregaro”, rispetto alle lodevoli intenzioni: alla presidenza, infatti, viene indicato il nome non di un tecnico, ma di un politico e cioè quello del grande tessitore della reunion leghista con il sindaco “olimpico”, il già senatore della Lega Federico Bricolo. In questo modo verrebbe arricchito il portafoglio dei posti che contano alla guisa di cambiali elettorali da onorare in anticipo rispetto ai risultati della scadenza di fine giugno; sarebbe, in questo caso, davvero un ottimo incasso per la Lega ma anche un grande azzardo per il candidato Sboarina, ostinato nel cercare il consenso prima tra i partiti della coalizione, le segreterie nazionali, i vertici dei corpi intermedi che tra gli elettori.

Il timone di comando dovrebbe passare al duo Maurizio Danese (che dopo due mandati da presidente si ricicla come amministratore delegato) e Flavio Piva (che implementa, passando dal via, una carriera iniziata all’Ente Fiera alla direzione commerciale, proseguita alla condirezione di Cattolica Assicurazioni fino alla presidenza della Banca di Verona). E ancora una volta le perplessità non mancano, completando un quadro di parziale rinnovamento, con figure sicuramente confortanti per i soci ma la cui capacità di innovazione rispetto al percorso compiuto attraverso gli anni tristi della pandemia, che hanno mascherato i precedenti risultati modesti, è tutta da dimostrare, soprattutto alla luce dello spazio perduto tra i colossi nel frattempo cresciuti: la Fiera di Rimini, la realtà più dinamica dell’Emilia Romagna  che si è accasata con Vicenza, e Milano, il cui shopping ha trovato collaborazione nell’altra fiera campione del food italiano rappresentata dal Cibus di Parma.

Ai veronesi la titanica fatica di scalare collaborazioni in giro per l’Italia e l’Europa per ottenere una dimensione sufficiente a mantenere il lustro degli anni d’oro. Sotto la lente d’ingrandimento rimane la vexata quaestio: ritorneranno più i fasti del passato? Forse non c’è migliore test dell’ormai imminente edizione di Vinitaly, prima delle grandi fiere internazionali ospitate in Italia, per confermare o meno la grandeur veronese nel settore.

L’attuale Direttore Generale Giovanni Mantovani viene giubilato alla consulenza, rivela sempre Ottaviani, per un passaggio di consegne nella migliore tradizione veronese: indolore e sicuramente ben retribuito. La qualità degli altri amministratori che verranno selezionati (uno sicuramente di nomina comunale, gli altri tra le liste che verranno formate dai soci, non senza influenze politiche) riveleranno gli equilibri raggiunti per le forze schierate in campo nella competizione elettorale.

È brutto da scrivere, ancor più da leggere, ma è questa la logica di aziende di proprietà pubblica, dove il merito e la competenza passano in secondo piano rispetto all’appartenenza.

Il parere dei candidati-sindaco

Per il sindaco la partecipazione all’aumento di capitale con le risorse dei cittadini veronesi è motivo di vanto, esempio di buona amministrazione e successo della sua esperienza amministrativa; in questo senso non differisce dall’ambizione del competitor Flavio Tosi, fautore della “veronesità” nella gestione delle aziende pubbliche e promotore di una governance che non ha ancora definito le conseguenze dei cambiamenti statutari, fortemente voluti dai soci privati. Per entrambi l’impatto sul quartiere dei flussi di traffico prodotti dagli eventi fieristici sono motivo di slogan, ma di fatto nessun impegno concreto è stato preso nei confronti della cittadinanza, che lamenta da molti anni le pessime condizioni di vivibilità.

E Damiano Tommasi? Mistero. Il candidato fungo, improvvisamente apparso agli occhi degli elettori dopo un inverno in cui, silente, si è preparato alla battaglia prendendo parte agli 11 tavoli (diconsi 11) a cui ha fatto sedere gli esperti della sua variegata coalizione (dal centro sinistra di +Europa, Italia Viva alla civica di Traguardi, dai litiganti di Azione e Movimento 5 stelle, di cui vedremo l’effetto dell’ostracismo dichiarato da Roma da Calenda, al Pd fino alla sinistra barricadiera del coriaceo Bertucco e degli ecologisti) nelle fugaci apparizioni pubbliche non ha proferito parola sul tema, limitandosi a porre all’attenzione degli ascoltatori eteree dichiarazioni che Verona deve saper guardare oltre, alla dimensione europea, convinta del valore inespresso che può manifestare se meglio guidata (da lui in caso di vittoria, si intende).

Poi c’è il quarto incomodo Michele Croce: il suo refrain è che i quartieri devono ritrovare vivibilità, cita il PNRR e va avanti con slogan accattivanti, ma pur sempre solo slogan. C’è da chiedersi se dopo le due ultime candidature, durante le quali ha preferito presidenze di aziende pubbliche al seggio comunale, vorrà replicare anche quest’anno, nel caso in cui venga eletto a Palazzo Barbieri (come Consigliere, s’intende). E poiché, come cita il proverbio, non c’è due senza tre, non ci si dovrebbe meravigliare se al momento del ballottaggio metterà all’asta il suo appoggio in cambio di un ruolo di spicco proprio in un’azienda partecipata; ma se varrà ancora la regola anche l’epilogo per il suo incarico potrebbe seguire quelli precedenti: sostituzione per incapacità di gestire l’incarico. Se ai suoi elettori sta bene così, buon per loro.

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