Emanuela Zuccalà è giornalista, scrittrice e regista. Dopo una lunga carriera da inviata di Io donna del Corriere della Sera, oggi si dedica a produzioni multimediali indipendenti e a campagne d’informazione sui diritti delle donne. I suoi articoli e documentari hanno ricevuto vari premi internazionali fra cui il Press Freedom Award di Reporters Sans Frontières (2012) e il Premio Marco Luchetta (2021).

Con il progetto multimediale UNCUT, che denuncia la pratica delle mutilazioni genitali femminili e che è stato pubblicato e proiettato in 16 Paesi (oltre che al Parlamento Europeo e alle Nazioni Unite), ha vinto ben 19 premi giornalistici e cinematografici.

Ha pubblicato vari libri tra cui Sopravvissuta ad Auschwitz. Liliana Segre, testimone della Shoah, Giardino atomico. Ritorno a Chernobyl e Le guerre delle donne, uscito l’anno scorso.

Sempre l’anno scorso è stata anche ospite di Heraldo al Festival del Giornalismo di Verona 2021, in cui è stato proiettato il suo film documentario La scuola nella foresta sulle mutilazioni genitali femminili in Liberia.

Emanuela Zuccalà durante il Festival del Giornalismo di Verona 2021

Abbiamo intervistato Zuccalà per commentare insieme a lei, le recenti notizie di stupri perpetuati da parte di soldati russi su donne ucraine. Inizialmente queste notizie sono state tacciate di falsa propaganda da parte dei media ucraini. Poi però sono spuntati delle video-testimonianze in internet, alle quali si sono aggiunte le conferme di volontari e religiosi di diverse associazioni presenti nel territorio ucraino, che hanno ascoltato le storie di alcune donne.

Infine, la vicepremier ucraina Olha Stefanishyna, ha pubblicamente accusato l’esercito russo di violenze contro molte donne ucraine, sia soldatesse sia civili. Alle sue accuse si sono aggiunte le dichiarazioni di altre deputate parlamentari ucraine rilasciate a giornalisti di Londra, in occasione di una loro visita a Westminster.

Zuccalà, cosa ne pensa della possibilità che soldati russi stiano utilizzando lo stupro contro le donne ucraine?

«Innanzitutto da giornalista penso che le notizie vadano verificate e che le fonti debbano essere attestate come attendibili. D’altro canto, vedendo l’evolversi del conflitto, ritengo queste notizie alquanto verosimili. Sono notizie che andranno poi accertate, dagli organi giudiziari internazionali di competenza. Anche se l’esperienza ci dice che provare gli stupri di guerra è un compito molto difficile. Molto più che contare i morti e i feriti di guerra. Perché significa raccogliere testimonianze di donne che parlando, rivivranno il dramma. E non tutte hanno la forza di farlo.»

Cos’è uno stupro di guerra?

Lo stupro di massa in guerra è un’azione tipica soprattutto dei conflitti cosiddetti asimmetrici, nei quali i militari attaccano le popolazioni civili. Il conflitto in corso tra Russia e Ucraina segue questo schema: un esercito che invade uno Stato.

Foto di Alexander Kudinov

Certo, gli ucraini hanno reagito difendendosi militarmente, ma è evidente l’attacco feroce della Russia contro obiettivi civili. Lo scopo dello stupro di guerra non è la conquista di un territorio, ma l’umiliazione e la distruzione del nemico annientandone l’autostima e la solidarietà di gruppo. È un’autentica tattica bellica per dissuadere i civili dall’appoggiare i combattenti.

Lo stupro quindi diventa l’arma più efficace per deprimere e abbattere moralmente un popolo. Perché lascia delle ferite profonde che il tempo non rimarginerà facilmente. A volte lo stupro viene perpetrato anche come azione di genocidio, con l’obiettivo di cambiare la composizione etnica della popolazione nemica, come abbiamo visto per esempio durante il genocidio in Ruanda nel 1994, quando in tre mesi furono stuprate tra le 100.000 e le 250.000 donne. Inoltre lascia ferite sul corpo delle donne, e non sul terreno di battaglia, il che lo rende ancora più difficile da documentare e punire.

Come si fa ad accertare questo crimine?

«Per secoli, lo stupro in guerra è stato considerato come un accidente inevitabile. Dopo il secondo conflitto mondiale, né il Tribunale di Tokyo né quello di Norimberga hanno riconosciuto il reato di violenza sessuale. Solo nel 1993 il Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia ha incluso lo stupro di guerra fra i crimini contro l’umanità, al pari della tortura e dello sterminio.

Donne in un campo profughi libanese. Foto di Ahmed Akacha

Cinque anni dopo, il Tribunale per il Ruanda ha emesso la prima condanna per stupro ai fini del genocidio a carico di un sindaco, accusato di esserne stato il mandante di un’azione efferata. Più recentemente, nel 2001, per la prima volta tre soldati serbo-bosniaci sono stati condannati per stupro come crimine contro l’umanità dal Tribunale internazionale per l’ex-Jugoslavia. Queste poche condanne, se confrontate al numero di stupri commessi nelle varie guerre, ci suggerisce quanto sia difficile perseguire e punire tale reato. Non solo: il Rappresentante Speciale dell’Onu per i crimini sessuali in situazioni di conflitto, una figura istituita nel 2009, nel suo ultimo rapporto evidenzia lo scarso impegno di tutti gli Stati ad arginare il fenomeno ma soprattutto a prendersi cura delle sopravvissute.»

La Vice-premier Stefanishyna ha affermato con vigore che “ogni singolo soldato russo che abbia commesso questo crimine di guerra verrà chiamato a risponderne”. Le chiedo, le condanne emesse per stupri di guerra fino ad oggi, sono per lo più simboliche o effettivamente vanno a colpire chi ha concretamente commesso il reato?

«Le condanne sono importanti ma finora sono state infinitamente minori rispetto al numero di donne violate, dunque restano per lo più simboliche. È emblematico il caso della Repubblica Democratica del Congo, dove dagli anni ’90 è in corso la guerra più sanguinosa d’Africa, con il maggior numero di profughi. Nel 2009 l’Onu ha istituito un Rappresentante Speciale per i crimini sessuali in situazioni di conflitto pensando proprio alla RDCongo, una sorta di “capitale mondiale degli stupri di guerra”. Eppure in questo Paese domina l’impunità. Ci sono tanti reati accertati, come mi hanno raccontato associazioni di giuristi congolesi. Fatti noti ma destinati a restare sommersi per dolore, paura e soprattutto vergogna.

Lo stupro di guerra è un crimine terribile. Il fatto che stia avvenendo oggi, in un paese così geograficamente vicino a noi, secondo lei lo rende ancora più spaventoso?

Profughi in fuga. Foto di Mathias Derksen

«Sarò sincera, questa distinzione tra guerre vicine e guerre lontane, tra profughi veri e presunti, tra crimini contro l’umanità perpetrati dentro o fuori i confini dell’Europa, è una distinzione che non appartiene al mio modo di pensare. Sarà che ho viaggiato praticamente in tutto il mondo, che ho ascoltato storie di violenza su donne di qualsiasi etnia e nazionalità, ma un crimine è un crimine, in qualsiasi posto venga commesso. Certo: vediamo le immagini delle città ucraine ridotte in macerie dall’oggi al domani, città che somigliano alle nostre, ed è dunque naturale che i volti delle donne di quei luoghi suscitino in noi italiani ed europei un’empatia collettiva più forte di quanto riesca a fare il volto di una donna congolese dalla pelle nera che vive nella foresta equatoriale. Eppure la sofferenza scatenata dalla violenza, nel breve e nel lungo termine, è esattamente la stessa. E poi, se proprio vogliamo calcolare la distanza che ci separa da un conflitto, Tripoli in Libia dista da Roma meno di Kiev in Ucraina…

Questo doppio standard di valutazione, questa empatia differente, li comprendo nelle reazioni personali della gente comune: ognuno ha i propri sentimenti e sente di empatizzare con chi preferisce. Ma li trovo inaccettabili e molto tristi nella politica, nei capi di Stati, nelle politiche europee. L’Europa ha sbloccato subito la burocrazia per accogliere gli ucraini in fuga, il che è un evento meraviglioso, ma non ha fatto lo stesso per i siriani, gli yemeniti, gli afghani.

Se davvero l’Europa vuole essere una casa dei diritti, della democrazia, dei valori, non può fare distinzioni comode tra i profughi, tra le guerre, tra i crimini.»

Dal punto di vista dei diritti delle donne, l’accadere di stupri di guerra in un paese che almeno geograficamente fa parte dell’Europa, che cosa ci dice? Che i diritti conquistati sono fragili? È pura apparenza? Che la donna rimarrà sempre la prima vittima, la più vulnerabile?

«No. Ci dice che la guerra è un orrore che stravolge la realtà, sempre, senza eccezioni. Che in un attimo può polverizzare una civiltà e i valori che la sorreggono.

Donne ucraine che preparano allestimenti militari. Foto di Alexander Zvir

Intendiamoci: in guerra tutti soffrono, ma la sofferenza delle donne ha delle sfumature più gravi per la gravità delle conseguenze nel lungo periodo. Per tre fattori fondamentali, secondo me. Quando scoppia un conflitto in un Paese in cui la parità di genere è ancora lontana, come la maggior parte dei Paesi in via di sviluppo, le donne dovranno tornare indietro e rifare da capo le battaglie già fatte per i loro diritti, come sta succedendo in Afghanistan per esempio. Con le guerre le donne vengono ributtate indietro: aumentano l’analfabetismo femminile e i matrimoni infantili perché le famiglie profughe, vivendo nella precarietà, tendono a far sposare le figlie bambine nella convinzione di proteggerle o per ottenere una dote, come abbiamo visto tra le rifugiate siriane in Giordania. Un secondo aspetto è proprio lo stupro di guerra, che crea ferite che non si sanano se non nel lungo, lunghissimo periodo, addirittura rendendo i processi di pace più complessi. E poi c’è la piaga della mortalità materno-infantile, che durante la guerra diventa elevatissima perché vengono distrutte le strutture sanitarie e le vie di comunicazione. La guerra è il peggio che l’uomo possa fare.

Come diceva Gino Strada: “Ogni guerra ha una costante: il 90% delle vittime sono civili, persone che non hanno mai imbracciato un fucile, che non sanno neanche perché gli arriva in testa una bomba. Le guerre vengono dichiarate dai ricchi e potenti, che poi ci mandano a morire i figli dei poveri”.»

Il suo ultimo libro si intitola La guerra delle donne. La guerra viene sempre descritta con narrazioni maschili: di vincitori, prigionieri, bottini, conquiste e sanzioni. Lei nei suoi lavori invece, dà voce alle donne. Esiste un punto di vista femminile sulla guerra?

«Certo, ed è una narrazione totalmente diversa rispetto a quella tessuta da parole maschili. Ce lo ha spiegato magistralmente la scrittrice bielorussa Svetlana Aleksievic, Premio Nobel per la letteratura nel 2015. Nel suo libro La guerra non ha un volto di donna, raccoglie tante voci di donne sovietiche combattenti nel secondo conflitto mondiale, e l’affresco che dipinge è lontanissimo dai toni del trionfo, tanto che il libro inizialmente fu censurato dal governo sovietico. Le donne reduci dalla guerra parlano di paura, dell’odore del sangue, degli uomini morti che pesano più dei vivi, della nostalgia di casa e della mamma, della domanda martellante: “Perché proprio io sono rimasta viva?”. Parlano della natura che soffre insieme all’uomo. La guerra verbalizzata dalle donne trasuda sentimenti, emozioni, compassione. Una cosa mi auguro possa accadere, non appena la guerra in Ucraina finirà: che questa preziosa empatia che stiamo tutti provando verso le vittime e i profughi ucraini ci stimoli a interessarci delle sofferenze causate da altri conflitti in corso nel resto del mondo. La Siria, l’Afghanistan, lo Yemen, le sempre più numerose guerre d’Africa… Sono decenni che parliamo di globalizzazione e ancora fatichiamo a pensare l’intero mondo come casa nostra. La sofferenza dell’altro non cambia con il numero di chilometri che ci separano da lui. E qualsiasi guerra non è mai abbastanza lontana da noi.»

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