Con l’esordio sulla stampa grazie alla mirabile penna di Stefano Lorenzetto, Damiano Tommasi ha preso posto nell’olimpo dei candidati sindaci con possibilità di raggiungere il ballottaggio alla prossima tornata elettorale cittadina. Un esordio sommesso, nello stile del personaggio che ha contribuito a creare per tutto l’autunno con il gioco sfiancante della margherita, di cui ha saccheggiato i campi della provincia da Verona a Sant’Anna d’Alfaedo.

Basso profilo, immagine dimessa, da chierichetto in servizio permanente effettivo, padre di famiglia, sindacalista a fine carriera ma calciatore in perenne attività, imprenditore scolastico con metodi all’avanguardia, sostenitore del terzo settore, dà l’impressione di essere perfetto per lo schieramento di cui si è messo a capo e di cui ha riunito 139 soggetti  attorno a 11 tavoli per costruire un programma che sia definitivamente alternativo a quello di Flavio Tosi e Federico Sboarina. Il metodo dei tavoli è sicuramente innovativo e dimostra la volontà di costruire un programma frutto del dialogo, del dibattito e sintesi tra molte realtà e da presentare poi al giudizio degli elettori, trattando le macroaree di quartieri e periferie, smart city e innovazione, transizione ecologica, urbanistica, economia sostenibile, Verona città aperta, cultura e turismo, nuove povertà e fragilità, istruzione, mobilità, sport.

Per diventare sindaco deve però dimostrare ai molti di centro di meritare la loro fiducia, garantendo visione, conoscenza dei problemi della città ma soprattutto capacità di controllo di un coacervo di partiti che della discussione sui diritti e i massimi sistemi hanno fatto da sempre il vangelo. Dalle interviste che sono seguite è stato prudente e attento più a enunciare principi condivisibili universalmente che proposte e orientamenti sui molti temi spinosi che sono venuti al pettine della cronaca, divisivi e origine di contrasto nella sua stessa coalizione in cui convergono i giovani centristi di Traguardi, i partiti che si rifanno a Calenda, Bonino, i Federalisti europei, i CinqueStelle (che a Verona sono un mistero dopo l’incomprensibile trasbordo del candidato sindaco Gennari tra le file leghiste), i partiti della sinistra storica fino alla costola massimalista di Bertucco, e le formazioni giovanili, globaliste, ecologiste e inclusive: un bel gruppo da cui dovrà vedersela quando sarà ora di affrontare le decisioni e cercare una sintesi che sulla carta pare impossibile.

Una persona così seria non ha certo bisogno di consigli, non mancandogli i suggeritori; certo se vuole delle chance deve essere originale e individuare fin da subito esperti che parlino per lui e con lui indossino la maglia di una squadra di cui dovrà essere necessariamente il regista. Una squadra che dovrà oltretutto allenare e a cui garantire supporto in consiglio comunale con traguardi raggiungibili nelle fatidiche tappe di ogni mandato: i primi cento giorni, i primi due anni e le fondamenta per strategie pluriennali che travalichino la durata della prima amministrazione, in un quadro temporale che arrivi al 2040 nel solco degli indirizzi definiti a livello europeo e globale, dove si spera Verona torni a essere protagonista e non più ai margini a cui l’hanno relegata gli ultimi anni.

Originalità, questa sconosciuta nel versante del centro destra, dilaniato da due personalità egotiche che stanno affrontando la campagna elettorale in maniera così diversa che difficilmente si potrebbe descrivere.

Flavio Tosi, il ritorno. La macchina da guerra  della raccolta dei consensi, convinto che la formula degli esordi, che l’hanno premiato prima con l’assessorato regionale e poi quale sindaco per due mandati, sia ancora vincente: presenza nei luoghi popolari dove ascolta la gente e dà impressione di condividere le fatiche quotidiane, negli eventi, sui media, incessantemente querulo su ogni argomento. Peccato debba far conto della famigerata memoria da pesce rosso degli elettori veronesi, che dovrebbero sollevare il sopracciglio ogni volta che attacca la giunta e il sindaco in carica cercando di simulare estraneità ai prodomi dei disastri attuali, tutti maturati con le strategie, gli uomini ed il consenso costruito nei dieci anni in cui ha gestito il potere in città, e non solo in quella.

Potere che Federico Sboarina ha cercato di maneggiare tra promesse mancate (solo io ricordo l’impegno a un solo mandato?), dossier spinosi irrisolti, maldestra gestione di consiglieri saltimbanchi e alleati controproducenti, quando accontentati con presidenze dalle quali sono stati rimossi a furor di consiglieri indispettiti. Il sindaco della gestione della pandemia e che verrà ricordato per il compiacimento con cui ha costretto i veronesi a casa seguendo le direttive governative e regionali, ma che poi ha capeggiato la pattuglia degli irriducibili, anticipando i colleghi nell’imposizione di mascherine all’aperto e divieti di assembramento prenatalizi da diventare esempio nazionale. Un sindaco che ha cercato la riconferma coltivando relazioni cittadine ai più alti livelli e chiedendo ai big nazionali una patente per la riconferma, cercando di eliminare i concorrenti prima di raccogliere voti e inserendo l’elezione in un risiko nazionale dove la tessera del primo cittadino conta più dei risultati ottenuti durante il mandato. Di fatto non ha ancora cominciato la sua campagna elettorale ma è da mesi alla ribalta nel tentativo di accreditarsi meriti e risultati che sui social vengono stigmatizzati senza freni inibitori.

Ai veronesi l’onere di premiare due figure di cui hanno sotto gli occhi i risultati, presenti e passati, oppure scommettere sul cambiamento, non senza un occhio ai programmi e alle persone che dovrebbero realizzarli.

C’è da farli ritornare nelle vie e nei locali, superando il terrore seminato a piene mani dai provvedimenti governativi di contrasto della pandemia, supportati da una stampa acritica e da scienziati ed esperti d’avanspettacolo; far ripartire l’economia tra inflazione e nuove povertà esasperate da prospettive incerte; sbrogliare nodi gordiani sulle partecipate (inevitabilmente utilizzate come merce di scambio politico e uffici di collocamento per i sostenitori delle varie fazioni); ravvivare una cultura fossilizzata su tematiche desuete e ripetitive (a proposito il 23 è l’anno del centesimo festival areniano…) dove Verona ha brillato in assenza ad ogni competizione per l’attribuzione di fondi o destinazione di rappresentanza; cogliere l’occasione delle rivoluzioni urbanistiche superando gli scogli dove si annidano le sirene degli speculatori commerciali, immobiliari ed alberghieri; sistemare la partita di una viabilità impazzita; prendere atto del grido di dolore di Vincenzo Tinè e moderarne gli effetti sui cittadini e gli esercenti; comprendere infine che il turismo, materia che maneggio meglio di altre, non si improvvisa e l’abusata classifica per cui Verona sarebbe (stata, pre pandemia) la quarta città turistica d’Italia (confondendo ingenuamente i dati della provincia con quelli della città) si mantiene e rinnova solo con conoscenza, competenza, governance, pianificazione, strategia ed idee chiare per la destinazione, in un ruolo dove l’amministrazione comunale nel quinquennio ha sopperito malamente ad una riorganizzazione gestita in maniera pessima dal coordinamento regionale, con complice assenza degli operatori a tutti i livelli.

La campagna elettorale è ufficialmente iniziata e, sciolto il dubbio che assilla i leghisti, cui pare siano stati promessi ruoli, presidenze, consiglieri di amministrazione, possiamo tutti prepararci con birra e popcorn ad assistere allo spettacolo!

Sergio Cucini

Foto di copertina di Osvaldo Arpaia

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