Cuba è in rivolta. E finalmente, verrebbe da dire. Dopo decenni a soffrire sotto una dittatura che ha affamato la popolazione, rendendo sempre più complicato vivere (ma a volte anche solo sopravvivere) sulla splendida isola caraibica, oggi è arrivato il momento della protesta. I cubani non ce la fanno più. Complice una situazione economico-sociale ormai arrivata allo stremo, come peraltro in altri Paesi di quell’area, da domenica scorsa migliaia di persone hanno organizzato quelle che appaiono al momento le più grandi manifestazoni antigovernative degli ultimi 27 anni. Dopo il cosiddetto “maleconazo” del 1994, non si erano, infatti, mai viste tensioni popolari come quelle di questi giorni a Cuba e chissà che non possano rappresentare “l’inizio della fine” del regime comunista, al potere da 62 anni e mezzo, dal gennaio 1959, da quando cioè Fidel Castro ed Ernesto Guevara spodestarono il precedente dittatore, all’epoca foraggiato dalla CIA, Fulgenzio Batista. Un semplice cambio della guardia che però nulla ha cambiato nella vita dei cubani che hanno continuato a vivere sotto un giogo insopportabile. Con, in più, le restrizioni imposte dall’embargo statunitense che di fatto ha bloccato anche la crescita economica del Paese. Certo, finché è esistita l’URSS Cuba ha potuto giovarsi dell’aiuto anche economico dell’alleato comunista, ma quando la federazione delle repubbliche sovietiche si è disgregata anche per Cuba è iniziata la progressiva discesa.

Dina Stars (a destra) durante la trasmissione di Cuatro, canale televisivo spagnolo, che ha registrato in diretta il suo arresto.

Il governo del presidente Miguel Dìaz-Canel negli ultimi anni ha puntato tutto sul turismo, senza di fatto proporre una ricetta economica alternativa e sostenibile. Con la pandemia, che ha bloccato i viaggi nel mondo, anche quest’ultima e fondamentale voce economica ha cessato di aiutare il popolo cubano che è stato progressivamente spinto verso la fame e l’indigenza diffusa. E viene anche un po’ da sorridere a pensare all’invio del contingente medico in Italia, un anno fa, quando il nostro Paese era in estrema difficoltà a causa del Covid-19 e ai peana di esaltazione che sia a Cuba sia in Italia molti fecero rispetto a quell’invio. Preziosissimo, sia chiaro, ma se pensiamo che oggi Cuba versa in condizioni di grandissima difficoltà viene da pensare che fosse più che altro solo una azione di propaganda. Come spesso accade nei regimi.

Il governo ha reagito al malcontento di questi giorni nel peggiore dei modi, con decine di arresti, scontri fra polizia e manifestanti (che hanno portato anche alla morte accertata di un giovane) e anche al bavaglio della stampa, con tanto di arresti illegittimi nei confronti di chi sta cercando di raccontare, in patria come all’estero, cosa sta succedendo a L’Avana e dintorni. Il caso della giornalista Costa e della blogger Dina Stars, quest’ultima arrestata nel corso di una diretta televisiva con un canale spagnolo, sono quelli più eclatante ma non gli unici. Come se non bastasse, in un delirante messaggio al Paese, lo stesso Dìaz-Canel ha persino invitato i suoi sostenitori a confrontarsi con i manifestanti. Auspicando, quasi, una sorta di guerra civile.

Le prossime ore appaiono estremamente delicate, perché la popolazione, disperata, non pare intenzionata a fermarsi, anche se il blocco di internet imposto dal governo in queste ultime ore ha messo in difficoltà i capi della protesta, che utilizzavano i social network per le comunicazioni importanti.  Al momento non è nemmeno così chiaro chi stia dirigendo le proteste, anche perché non esiste una vera e propria leadership, chiara e definita. Di certo c’è che cittadini cubani di tutti i ceti sociali hanno aderito spontaneamente e , almeno all’inizio, pacificamente alle proteste organizzate e documentate sui social media. Poi le violenze della polizia hanno scatenato quelle dei manifestanti in una spirale che può degenerare da un momento all’altro. 

Fino a tre anni fa solo una piccola parte della popolazione aveva internet in casa; gli altri potevano connettersi solo negli “Internet café” o nei parchi Wi-Fi, con una tariffa oraria. Le cose negli ultimi anni sono cambiate rapidamente. Per il governo comunista migliorare la connettività era una priorità per provare a modernizzare il Paese, tanto che oggi qualsiasi cubano può trasferire denaro dal suo cellulare, pagare le bollette o fare acquisti online. E persino trasmettere ciò che accade all’interno dell’isola. Forse però il governo non immaginava, ingenuamente, che la stesso internet avrebbe poi portato all’insurrezione popolare. Con una decina d’anni di ritardo è un po’ quello che accadde nei Paesi del nord-Africa in occasione della cosiddetta “Primavera Araba”. All’epoca, purtroppo, le proteste degli studenti – che poi coinvolsero il resto della popolazione – se anche causarono in qualche caso alla caduta del dittatore di turno (come in Egitto, in Libia o in Tunisia) non portarono poi a un vero e proprio processo democratico successivo, tanto che la situazione attuale di quei Paesi non è poi così diversa da quella precedente alla rivoluzione. E anche nel più recente caso venezuelano le proteste alla fine si sono trasformate in un “nulla di fatto”, con Maduro ancora ben saldo al potere nonostante il suo popolo versi nella più grave crisi della sua storia. L’augurio, in questo caso, è che le manifestazioni possano portare a un cambio radicale nel sistema socio-politico-economico dell’isola. 

La penuria di generi di prima necessità, cibo e medicine, la frequente interruzione dell’elettricità in alcune regioni e la sempre maggiore diffusione di negozi che accettano solo il pagamento in valuta estera (il peso cubano vale una miseria, circa 0,035 euro) sono ormai lo status quo della maggior parte della popolazione, se si eccettuato pochi gerarchi o politici della nomenclatura del Paese. Una crisi economica sempre più acuta, resa ancora più amara dalla pandemia di Covid-19 e dal contemporaneo esacerbarsi delle sanzioni statunitensi messe in atto dal governo Biden, che hanno confermato l’atteggiamento del suo predecessore Trump (ma non quello di Obama, che aveva tentato di ammorbidire la posizione a stelle e strisce nei confronti di Cuba) e in questo modo avviato (e probabilmente anche organizzato) le manifestazioni, scoppiate per la prima volta domenica a San Antonio de Los Baños (50mila abitanti a 30 chilometri a est dell’Avana) e presto propagatesi in altre località, inclusa la capitale. Al grido di “Abbasso la dittatura” le proteste sono sorte spontaneamente per un evento a dir poco insolito in un Paese governato da sei decadi dal Partito Comunista (PCC)e dove le uniche concentrazioni autorizzate erano quelle del partito stesso.

Il presidente ha prima affermato che le massicce proteste di domenica in tutta Cuba hanno cercato di “fratturare l’unità” del Paese, poi ha negato la repressione dei manifestanti, nonostante i numerosi video circolati in rete – prima del blocco – che mostravano un’azione della polizia a dir poco fuori controllo, con aggressioni, sparizioni, arresti e ingiustificate violenze. Il popolo cubano può e deve reagire e trovare la propria strada verso un nuovo passaggio alla democrazia, ma non può essere lasciato solo.

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