L’anno 2022, diciamocelo, non è iniziato nei migliori dei modi. Fin dai primi minuti è stato caratterizzato da eventi che hanno messo in luce tutte le contraddizioni, le sfide e le difficoltà della nostra società. Sotto molti punti di vista. Come a ricordarci che sì, certo, le nuove partenze e i nuovi inizi sono sempre carichi di buoni propositi, ma questo non vale se abbiamo dei sospesi non risolti, dei compiti non ancora finiti.

Foto di Moritz Knoringer

Quanto è successo a Milano, durante i festeggiamenti di Capodanno in Piazza Duomo, con le aggressioni da parte di gruppi di giovani maschi verso delle giovani donne, ne è un esempio. Le indagini sono ancora in corso: ci sono i primi fermi, le audizioni delle vittime e i riconoscimenti facciali.

Ci sono già anche le varie polemiche: questi ragazzi sono milanesi? Non sono milanesi? Sono italiani? Non sono italiani? Come se la provenienza geografica cambiasse in qualche modo la gravità delle violenze messe in atto.

Ne abbiamo parlato con Antonio Di Donfrancesco, psicologo e psicoterapeuta del SUM: Servizio Uomini Maltrattanti, gestito dal Gruppo Polis di Padova.

Buongiorno dottore, per iniziare, ci presenta il suo lavoro e il servizio che offrite a Padova?

«Mi occupo di violenza di genere ormai da più di dieci anni, all’interno del Gruppo di cooperative Polis. Inizialmente seguivo i progetti di accoglienza per donne vittime di violenza, in disagio sociale o rifugiate. Nel 2013, durante un convengo dell’Azienda Ospedaliera di Padova, abbiamo conosciuto la realtà del Consultorio Uomini di Bolzano, una realtà forse poco conosciuta in Italia ma molto nota a livello europeo. Da lì è nata l’idea di riproporre il servizio anche a Padova, e dopo un’adeguata formazione in particolare con il Centro di Ascolto Uomini Maltrattanti di Ferrara. Nel 2015 abbiamo iniziato operativamente.»

Chi arriva al vostro centro?

Foto di Saulo Mohana

«Qualsiasi categoria di uomini, di qualsiasi livello di istruzione, economico o professionale. Non c’è una tipologia particolare. Abbiamo accolto operai, medici, forze dell’ordine.. Il che ci dice subito che il problema della violenza maschile sulle donne è trasversale e molto diffuso.»

In questi anni è cambiato qualcosa dal punto di vista degli accessi?

«In realtà no. I numeri sono aumentati di molto, specie dopo l’introduzione del Codice Rosso (ne abbiamo parlato anche nell’articolo del NAV di Verona, nda). Per capirci, nel 2021 abbiamo avuto un totale di 59 prese in carico. Alcuni nuovi altri provenienti da percorsi iniziati l’anno prima.

Foto di Matthieu Joannon

Ciò che è cambiato molto, negli ultimi due anni, è la modalità di accesso. All’inizio era fondamentale il passaparola, l’invito a partecipare da parte di consultori o dell’Ufficio Esecuzione Penale Esterna, quella struttura giudiziaria che gestisce tutte le pene alternative al carcere. Gli invianti erano importanti per l’avvio del percorso e presenti durante lo svolgimento. Da quando è stato introdotto il Codice Rosso invece, abbiamo un notevole numero di invii dagli avvocati già in fase preliminare, cioè quando il loro assistito non è ancora stato giudicato. Il che significa che gli interlocutori usuali, non fanno in tempo ad arrivare da noi, perché il percorso è già stato intrapreso dall’uomo. Ci troviamo di fronte quindi a un aumento delle richieste, ma dietro spesso non c’è una reale motivazione. Il rischio è che questo tipo di percorso diventi una sorta di scorciatoia, di certificato da ottenere per far bella figura davanti al giudice, piuttosto che una vera opportunità di cambiamento per chi lo intraprende.»

Che tipo di percorso offrite?

«Iniziamo con una valutazione individuale per conoscere la situazione e definire che tipo di trattamento proporre, se di gruppo o individuale. Tenga presente che noi ci teniamo moltissimo alla qualità del percorso, per cui ci riserviamo anche di scartare alcune richieste, quando vediamo che non c’è una reale volontà. L’anno scorso, per esempio, abbiamo scartato un terzo delle domande. Dopo la valutazione proponiamo un incontro di gruppo per un anno, a scadenza settimanale, e poi per altri 6 mesi con 4 incontri di verifica. Sono incontri di tipo psicoeducativo. Se invece ci sono casi particolari, come violenze sessuali, attiviamo un percorso individuale di 8 mesi, sempre una volta alla settimana.»

Qual è l’aspetto che più continua a colpirla del suo lavoro?

«La negazione e la minimizzazione della violenza. Sono due reazioni che continuano a stupirmi. Anche davanti a documenti oggettivi del tribunale, chi agisce violenza tende a negare il reato. Anche la normalizzazione di certi comportamenti mi crea sempre stupore.

Quando mi dicono: “Suvvia, non mi dica che lei non ha mai dato uno schiaffo a una donna?”. Come a chiedersi perché scandalizzarsi tanto per dei comportamenti che fanno tutti.

Questo lavoro è molto complesso, perché ha a che fare con tanti aspetti che si intersecano tra loro: il piano personale a quello culturale, il giuridico fino allo psicologico. Il primo passo che faccio è quello di tentare di ragionare sulle motivazioni al gesto violento, sulla comprensione delle proprie responsabilità

E proprio parlando di motivazione e di responsabilità, vorrei chiederle un commento sui fatti di Capodanno in Piazza Duomo a Milano.

«Guardi, proprio oggi leggevo di un papà che difendeva il proprio figlio, uno degli indagati, dicendo che è un bravo ragazzo. Partiamo da questa affermazione. Molti uomini che vengono al nostro centro provengono da una situazione di apparente normalità. Sono i classici “vicini della porta accanto”. Questo già ci dice due cose importanti: la prima è che la mentalità che si possa agire violenza contro le donne è un pensiero così diffuso che si nasconde dentro a vite normali.

Foto di Chandler Bell

La seconda è che scatta immediatamente la minimizzazione: “Ma sì dai, in fondo, è un bravo ragazzo! Che sarà mai una palpatina, uno schiaffo, una manata sul sedere… Può succedere.” Senz’altro qui poi c’è il discorso del gruppo che traina, del branco: “Sono tutti a comportarsi così, non mi posso tirare indietro proprio io”. Quindi oltre alla normalizzazione della violenza (non è grave palpare una donna), c’è la deresponsabilizzazione individuale (siamo un gruppo, lo faccio anche io). Ecco perché, di tutti quei ragazzi, non c’è nessuno che abbia tentato di fermare i compagni. Nessuno che abbia detto. “Dai basta! Non è divertente.” Se lo avesse fatto sarebbe stato preso in giro. Non sarebbe stato virile, un maschio vero.»

Anche qui secondo lei, di fronte alle grida delle ragazze aggredite, al loro terrore, c’è stata una minimizzazione?

«Assolutamente sì! È un meccanismo di pensiero che parte in automatico “Ok questa ragazza grida, è spaventata. Ma in realtà esagera”.

È questo un grosso problema individuale dei maschi: non sanno leggere le emozioni altrui. Non le sanno interpretare. E se ci pensa è perché nessuno glielo ha spiegato, non sono stati educati a farlo. Per cui diventa anche un problema culturale: nella nostra società, ai maschi non viene insegnato a essere empatici, a riconoscere le emozioni.

Quindi scatta il pensiero “Quella ragazza urla, ma non sta male, sta solo esagerando”.»

Nei vari commenti che emergono sulla vicenda, molto risalto si è dato al fatto che i ragazzi fossero stranieri o italiani di seconda generazione. Secondo lei quanto pesa in questo caso, la provenienza degli autori di violenza?

«Poco. Sono comunque ragazzi che sono cresciuti qua. Al di là della loro cultura di appartenenza, sono ragazzi che hanno capito che qua, in questa società, certe azioni si possono fare.

Se avessero visto in Italia altri modelli di comportamento, anche molto diversi da quelli di provenienza, non avrebbero messo in atto comportamenti così violenti.

Le faccio un esempio banale. Quando andiamo in qualche Paese in cui le strade sono estremamente pulite, siamo i primi a non sporcare. E se per caso ci cade qualcosa a terra, lo raccogliamo subito, perché lo sporco si nota subito. Se al contrario viviamo in un Paese dove le strade sono piene di immondizia, e ci cade un fazzoletto a terra, non ci viene neanche voglia di raccoglierlo. Tanto, ce ne sono altri, giusto? Questo ragionamento vale anche per la violenza, perché riguarda la legittimazione. Quei ragazzi hanno sentito che qua ci si può permettere di alzare le mani su una donna. Anzi. La cultura che hanno respirato ha detto loro che i veri maschi sono quelli un po’ aggressivi, quelli che prendono senza chiedere. E che alla donna in realtà piace: piace essere toccata; piace ricevere pacche sul sedere; piace essere presa.

Foto di Carlos

Il grosso problema attuale dei maschi, specie se giovani, è che con la caduta del modello patriarcale, non hanno ricevuto nessun altro modello a cui ispirarsi. Una nuova idea di uomo ancora non c’è. Ci sono dei tentativi, ma non hanno ancora la forza necessaria. I maschi di oggi non sanno come comportarsi in modo diverso. Allora rispondono a dei cliché che non esistono più, e che hanno bisogno di essere estremizzati per avere una legittimità. I fatti di Milano li interpreto così. Sono preoccupanti, certo. Ma ancora di più lo è sapere che sono azioni che avvengono quotidianamente. Magari non con queste modalità di gruppo così appariscenti. Ma quotidianamente c’è un maschio che alza le mani su una donna perché sa di poterlo fare.»

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