È passato più di un mese dal 25 novembre e quindi dalla Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Noi vogliamo continuare a parlarne, per fornire sempre nuovi punti di vista e contribuire al dibattito per poter comprendere come affrontare questa complessa problematica che riguarda la nostra società, a più livelli.

Per questo a inizio dicembre abbiamo incontrato un rappresentante dell’associazione Maschile Plurale e oggi invece, andiamo a conoscere meglio lo spazio di ascolto N.A.V. (Non Agire Violenza, scegli il cambiamento) del Comune di Verona. Il servizio è nato nel 2013, in collegamento al lavoro del centro anti violenza Petra, del Comune di Verona.

L’allora responsabile del centro volle integrare il lavoro in difesa della vittime di violenza, con un’azione di aiuto psicologico verso gli autori della violenza. Grazie a un primo bando ministeriale, nacque il servizio di ascolto per uomini maltrattanti. Il secondo in Italia dopo quello di Modena. Ora il servizio è totalmente finanziato dal Comune di Verona, che lo ha reso parte strutturale del servizio di assistenza pubblica che offre. Ne parliamo con Andrea Pasetto, psicoterapeuta e psicologo clinico che si occupa dello spazio N.A.V.

Dottor Pasetto, come avviene l’accesso allo spazio di ascolto?

«Lo spazio di ascolto NAV è un servizio pubblico, quindi significa che l’accesso è volontario e gratuito. Si può telefonare al numero dello sportello o scrivere una mail. Una volta contattati si avviano degli incontri di conoscenza della persona e delle problematiche. Da lì, a seconda dei casi, si propone un percorso di psicoterapia individuale o di terapia di gruppo. Si parla in ogni caso, di circa 35 incontri in un anno con dei momenti di verifica a tre, sei e nove mesi dall’inizio. Al termine, dopo quindi circa un anno, l’uomo che è stato in terapia può comunque contattare il servizio anche in seguito, con incontri di monitoraggio della situazione e sostegno. »

Foto di Headway da unsplah.com

Ricevete molte richieste?

«Sì, ci sono molte richieste. Soprattutto negli ultimi due anni abbiamo avuto un aumento considerevole. Un fattore è stato sicuramente l’introduzione del codice rosso nel 2019. Questa nuova legge permette al Tribunale di proporre il percorso terapeutico, all’uomo che ha agito violenza, con la sospensione condizionale della pena subordinata al percorso riabilitativo. Un secondo fattore è che il servizio è più conosciuto, abbiamo ormai 8 anni di presenza nel territorio e di esperienza nel trattare casi di violenza domestica. Infine, anche se non so dirle con esattezza i numeri, anche la pandemia ha giocato il suo ruolo. Le statistiche nazionale affermano che il numero di richieste è aumentato per tutti i servizi che si occupano di violenza contro le donne, quindi sicuramente ha influito anche per il nostro.»

Chi è inviato dal Tribunale ha sicuramente una spinta diversa rispetto a chi accede al servizio volontariamente. Secondo lei sono comunque percorsi efficaci?

Foto di Javie Molina

«Non si può rispondere in maniera univoca. Sono senz’altro diversi dalle terapie più classiche rivolte a chi ha agito violenza e ha in seguito deciso di riflettere su quanto accaduto. Per chi arriva su invito del Tribunale, una buona parte della terapia consiste in un lavoro di riconoscimento del problema. Sul rendersi consapevoli che l’uso della violenza non è una modalità sana di vivere una relazione. Se questo riconoscimento avviene e c’è motivazione a lavorarci su, il percorso va avanti. Laddove questo non avviene, si interrompe il servizio.»

Lei parla di riconoscimento del problema. Perché per alcuni uomini l’uso della violenza contro la propria compagna non è considerato un problema? Perché la violenza viene vista come un modo di gestire la relazione?

«C’è un discorso di attribuzione di responsabilità. Per un uomo che usa violenza verso una donna, la causa risiede al di fuori di se stesso. La colpa è sempre dell’altra, della compagna. La violenza è giustificata come reazione ad un evento particolare, ad un comportamento specifico. L’uomo che agisce violenza dice di essere stato costretto a reagire in quel modo. Per qualcosa che è accaduto.»

Ci può fare degli esempi?

«Ci può essere il caso dell’uomo che torna a casa dal lavoro, stanco, dopo una giornata passata fuori. Torna e riceve delle critiche dalla partner, perché è sempre via, perché non si occupa dei figli, perché non c’è mai. Parte il litigio, inizia l’escalation e si arriva all’atto violento. In questo caso, nel racconto dell’uomo, la violenza è giustificata dalla critiche che gli sono arrivate addosso. Oppure può esserci il caso dell’uomo mosso da gelosia. Vede la compagna usare il telefono, si insospettisce, il pensiero va subito al tradimento. Comincia a fare domande insistenti alla compagna, da lì inizia il litigio ed ecco, arriva la violenza. Anche in questo caso, l’uomo violento, tende a descrivere la dinamica attribuendo la colpa al comportamento della donna. Ad un evento preciso, che comunque sta al di fuori di se stesso.»

Invece nel percorso di terapia, lei ha accennato ad una presa di coscienza del problema, ad un riconoscimento.

foto di Charles Deluvio

«Sì esatto. Semplificando, possiamo dire che esistono due tipi di offender: uno di tipo più reattivo, impulsivo cioè che usa violenza per gestire emozioni dolorose che non sa regolare in modo diverso se non attraverso l’aggressività. Un secondo tipo che ha a che fare con la violenza premeditata, a sangue freddo, di tipo predatorio e che riguarda persone con problematiche antisociali o addirittura che rientrano nell’ambito della psicopatia. Noi vediamo principalmente persone che rientrano nel primo tipo di violenza e per una percentuale significativa di questi è possibile il cambiamento. Con la seconda tipologia gli strumenti terapeutici sono più spuntati e dobbiamo muoverci verso un misure e interventi più contenitivi o di protezione. Come dicevo gli uomini che accedono al nostro servizio, appartengono alla prima categoria. Sono uomini che agiscono con violenza ad emozioni negative, che non sanno gestire la frustrazione, la sensazione di abbandono, il sentirsi non amati. Il nostro lavoro parte da lì. Dall’individuare lo schema di funzionamento maladattivo che sta alla base dell’agire violento come per esempio: “desidero essere apprezzato, la compagna mi critica, mi sento umiliato sottomesso e l’unico modo che ho per gestire queste sensazione è agire violenza”. Se riceve delle critiche, riconosce di sentirsi umiliato, di sentirsi aggredito. Riconoscere le emozioni negative, imparare a gestirle, a non sfogarle tramite l’uso della violenza, questi sono gli obiettivi della nostra terapia.

foto unsplash.com

Utilizziamo un approccio che si rifà alla Terapia Metacognitiva Interpersonale, che offre all’uomo in terapia, degli strumenti per imparare a leggere i propri schemi interpersonali. L’anno scorso abbiamo pubblicato un caso studio. Il nostro intento è anche quello di dare validità scientifica al nostro lavoro. L’efficacia di una metodologia non si vede solo dai numeri, ma anche dalla tenuta nel tempo. E devo dire che il nostro studio pilota, dimostra molto bene l’efficacia di questo approccio.»

Come si pone il terapeuta nei confronti dell’uomo che intraprende questo percorso?

«Dobbiamo tenere sempre presente che si parte da una situazione di sofferenza personale che va riconosciuta. L’uomo che agisce violenza si sente lui, la vittima di quanto è successo, perché sente di esservi stato costretto. Di non aver avuto alternative. Con queste premesse, se noi volessimo subito farlo entrare in empatia con chi invece la violenza l’ha subita, non otterremmo nulla se non la sua chiusura. Il suo rifiuto a proseguire.

Dobbiamo, invece, partire dalle sue emozioni senza farlo sentire sbagliato. Sbagliato è il modo che ha usato per richiedere di essere considerato, non la richiesta di considerazione in sé.»

E la donna?

«Vorrei precisare che c’è un attenzione particolare per la sicurezza della donna e dei minori, poiché il servizio nasce proprio per questa ragione e quindi alla valutazione iniziale del rischio di recidiva di comportamenti violenti. In alcune situazioni di violenza domestica è importante proporre un intervento di sostegno anche per la donna

foto di Sydeny Sims

La donna vittima di violenza dovrebbe intraprendere un percorso di riconoscimento delle proprie emozioni e dei propri schemi di comportamento interpersonali. Penso che la lettura della donna solo come vittima, sia una lettura che non fa bene a nessuno. Non fa bene all’uomo, inteso solo come mostro. E non fa bene alla donna, che si trova a interpretare sempre e solo il ruolo di vittima. Modificare questo tipo di lettura invece, permetterebbe a entrambi di cambiare. In Italia, i servizi come il nostro sono nati sempre da pressioni culturali, sociali e politiche di tipo femminista. Se da un lato questo è un bene, perché permette di agire contro il problema della violenza domestica, dall’altro lato rischia di dimenticare una parte fondamentale: la parte psicologica e personale. Anche per la donna. Anche la donna vittima di violenza dovrebbe poi poter intraprendere un lavoro su di sé, sulle proprie emozioni, sulle proprie motivazioni e sui propri schemi. Così le verrebbe restituita autonomia e capacità di autodeterminazione. Potrebbe finalmente sentirsi autorizzata a dire: “ok, questa relazione è violenta. Cosa mi fa rimanere con quest’uomo? Perché non me ne vado?”

Se ci concentriamo solo sull’autore della violenza, priviamo la donna della possibilità di guardarsi dentro e del potere di decidere sulla relazione trovando modalità di uscita.»

Concludiamo riportando i riferimenti dello Spazio N.A.V., per chiunque ne fosse interessato. Per accedere si può chiamare il 333 9313148 o scrivere a spazio.uomini@comune.verona.it.

Il servizio è rivolto agli autori di atti di violenza domestica, per incoraggiarli ad adottare comportamenti non violenti nelle relazioni interpersonali al fine di prevenire nuove violenze, di modificare i modelli comportamentali violenti (art.16 della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, 2011).

© RIPRODUZIONE RISERVATA