Mentre le proteste del movimento “Black Lives Matter” si diffondono in tutta l’America una settimana dopo che un ufficiale di polizia ha ucciso George Floyd, morto «asfissiato per compressione del collo» come confermato dall’autopsia sul corpo del 46enne afroamericano, un diverso ma non meno grave abuso di potere si fa progressivamente strada: sono già più di 100 gli attacchi diretti della polizia ai giornalisti che seguono le manifestazioni che stanno infiammando gli Stati Uniti e non si tratta di episodi isolati. La violenza contro la stampa può apparire un “male minore” se paragonata a quella contro i cittadini americani che stanno protestando per la morte di George Floyd e contro gli omicidi di persone di colore perpetrati dalla polizia (come descritto dall’articolo uscito su Heraldo questa mattina, ndr), Gli incidenti però si stanno accumulando di ora in ora e solo adesso stanno attirando maggiore attenzione, in parte perché tra i giornalisti che sono stati presi di mira vi sono quelli dei grandi network tradizionali americani.

Il reporter della CNN Omar Jimenez mentre sta per essere arrestato

Un team di giornalisti della CNN è stato arrestato in diretta TV mentre documentava le proteste di Minneapolis, un cameraman della stessa emittente è stato colpito ripetutamente con un manganello nonostante indossasse un badge stampa e avesse la telecamera sulle spalle. Ancora a Minneapolis una squadra della CBS, due video reporter della Reuters chiaramente identificabili come giornalisti grazie ai badge che indossavano, sono stati presi di mira da proiettili di gomma e lacrimogeni. Altri incidenti hanno causato gravi danni fisici a fotografi freelance come Linda Tirado che ha perso l’occhio sinistro dopo essere stata colpita da un proiettile di gomma. Ma gli episodi non sono limitati a Minneapolis. A New York, la polizia ha arrestato un giornalista dell’Huffington Post, e un commentatore della CNN che stavano documentando le proteste con il cellulare. Altri abusi (giornalisti a cui è stato spruzzato negli occhi spray al peperoncino per poi essere arrestati, presi a pugni nello stomaco o con il manganello) sono stati registrati a Detroit, Las Vegas e Los Angeles.

Negli Stati Uniti sono in corso numerosi sforzi da parte delle organizzazioni a tutela della stampa per cercare di rintracciare gli attacchi ai giornalisti, che sono spesso denunciati immediatamente su Twitter. Bellingcat.com, un collettivo internazionale indipendente di ricercatori, analisti e citizen journalists che realizzano indagini open source e sui social media, ha già documentato 100 di questi incidenti.

«Sebbene in alcuni incidenti sia possibile che i giornalisti siano stati colpiti accidentalmente, nella maggior parte dei casi abbiamo registrato che i reporter sono chiaramente identificabili come rappresentanti della stampa ed è quindi chiaro che sono stati deliberatamente presi di mira», scrive l’analista Nick Waters di Bellingcat.com.

Lo U.S. Press Freedom Tracker ha stilato un elenco degli abusi verso la stampa legati alle proteste per il caso George Floyd, inclusi attacchi fisici, arresti e danni alle attrezzature dei media. Dal loro monitoraggio, nel periodo dal 28 al 31 maggio emerge come, in un periodo così breve, vi siano già stati 19 reporter arrestati, e ben 36 giornalisti che hanno riferito di essere stati colpiti dalla polizia con proiettili di gomma, di cui il 50% solo nel Minnesota.

La stampa non è attaccata però solo dalla polizia: in più di 140 città in tutta America dove sono scoppiate le proteste, a Denver, Pittsburgh, Phoenix e Seattle i giornalisti sono stati presi di mira talvolta anche dai manifestanti. A Washington DC, i contestatori hanno attaccato una squadra della Fox News colpendo il corrispondente della Fox con il suo microfono. Ad Atlanta, i manifestanti hanno vandalizzato il quartier generale della CNN. Non sorprende che alcuni commentatori americani abbiano incolpato la retorica del presidente americano Donald Trump per l’ondata di violenza contro i media. È noto come Trump abbia versato benzina sul fuoco, twittando sabato scorso che le «Fake News sono il nemico del popolo» rivolgendosi a CNN, MSDNC, New York Times e Washington Post.

La retorica di Trump chiaramente non aiuta. Ma in gioco sembrano esserci motivazioni molto più profonde. Le forze dell’ordine negli Stati Uniti hanno da tempo preso di mira giornalisti che si occupano di proteste e manifestazioni per i diritti umani. Nel 2014, ad esempio, almeno undici giornalisti sono stati arrestati mentre seguivano i disordini a Ferguson, nel Missouri dove si era verificato l’omicidio di Michael Brown, il diciottenne afroamericano ucciso dopo essere stato ripetutamente colpito da proiettili sparati da un agente bianco della polizia.

Spesso, come ha osservato il fondatore della no profit news The Intercept Jeremy Scahill, i reporter inviati a seguire le proteste sono «giornalisti anonimi che non appartengono a grosse società o corporate media outlets», quindi l’eventuale abuso di potere nei loro confronti o il loro maltrattamento non viene preso in considerazione. Molti dei giornalisti colpiti lo scorso fine settimana hanno riferito che la polizia li ha attaccati anche se stavano mostrando in modo evidente le loro credenziali stampa.

Sembra dunque che ai giornalisti non venga riconosciuto di essere prima di tutto delle persone, oltre che dei professionisti che cercano di fare il proprio dovere. Il contesto di queste proteste – e la violenza razzista che le ha provocate – significa inoltre che documentarle è, inevitabilmente, molto più pericoloso per i giornalisti di colore di quanto non lo sia per i loro colleghi bianchi.
Josh Campbell della CNN, che è bianco, ha riferito che la polizia di Minneapolis gli ha permesso di rimanere alla protesta mentre stavano arrestando il suo collega Omar Jimenez, che è di colore. E ancora, la polizia di Detroit ha interrogato un giornalista di colore della Free Press lasciando da soli e indisturbati i suoi colleghi bianchi. Come hanno testimoniato diversi reporter, il dover documentare casi ripetuti di brutalità da parte della polizia è traumatizzante anche dal punto di vista emotivo. «Alla scuola di giornalismo ti insegnano l’importanza della capacità di “uscire” dalla storia», ha scritto L.Z. Granderson sul Los Angeles Times. «Ma non ci sono corsi sulla gestione della propria salute mentale quando sei circondata ripetutamente dalla violenza.»

L’ondata di proteste a cui stiamo assistendo è molto complessa e sfaccettata, quindi molto difficile da descrivere stando dall’altra parte dell’oceano. Qualsiasi resoconto che voglia essere completo, tuttavia, deve sottolineare il violento abuso degli agenti di polizia – sia nell’omicidio di George Floyd che di altri afroamericani prima di lui, sia nelle manifestazioni che ne sono seguite. Ciò richiede un attento esame. Il modo con cui i media descrivono i disordini di Minneapolis è in grado senz’altro di modellare l’opinione pubblica sui fatti perché le opinioni delle persone sulle proteste e sul movimento “Black Lives Matter” che le sostiene sono formate in gran parte da ciò che le persone leggono sui giornali o vedono in televisione.

Questo dà ai giornalisti molto potere quando si tratta di guidare la narrazione di un evento. Possono drammatizzare lo scenario delle proteste o fare eco ai politici che etichettano i manifestanti come “criminali”. Ma possono anche ricordare al pubblico che al centro delle proteste c’è l’uccisione ingiusta dell’ennesima persona di colore, dando enfasi alle questioni dell’impunità della polizia e agli effetti del razzismo nelle sue numerose forme.
È difficile immaginare un migliore promemoria del ruolo della stampa di fronte al diffuso abuso di potere verso i giornalisti a cui si assiste in America in questi giorni: sia che lo si possa ritenere un danno collaterale delle proteste in termini di importanza, o la conseguenza di una brutale sfacciataggine ispirata dalle parole di Trump, il fatto che alcuni giornalisti siano feriti, minacciati e presi di mira con lacrimogeni o proiettili di gomma o arrestati mentre fanno il loro mestiere è un campanello d’allarme importante non solo per la libertà di stampa, ma per lo stesso principio di libertà.

La copertura mediatica degli eventi è quella amplifica e trasmette le motivazioni e le informazioni sostanziali sulle richieste dei manifestanti e spesso parla di questioni che riguardano minoranze che non hanno il potere di affrontarle con altri mezzi. Ecco perché è indispensabile che i giornalisti possano svolgere il proprio lavoro di testimonianza senza rimetterci fisicamente e psicologicamente ed ecco perché è importante indignarsi oggi davanti all’abuso di potere. Qualsiasi sia la sua forma.