Negli ultimi duecento anni, per non andare troppo in là, l’assetto urbano di Verona ha subito profonde trasformazioni, la gran parte delle quali – destino, questo, comune a molte altre città del vecchio continente – è avvenuta in coincidenza con eventi traumatici, se non addirittura tragici, che hanno modificato radicalmente il volto della città contribuendo a plasmarne l’aspetto attuale. Dalla nuova urbanistica di epoca napoleonica, passando per la devastante piena del 1882, fino agli sventramenti di epoca fascista e alle devastazioni dell’ultima guerra mondiale, questi passaggi cruciali non hanno soltanto influenzato l’evoluzione della “forma urbis”, ma anche modellato e generato processi sociali, rapporti economici e sviluppi culturali nuovi, imponendo alla città e ai suoi abitanti cambiamenti spesso radicali.

Si dirà: se la città è un organismo vivo, è bene che muti, che si evolva e si trasformi, per sfuggire alla trappola della cartolina nostalgica, dove l’apprezzamento per l’aspetto di ieri si trasfigura nella folle pretesa che nulla cambi, che tutto resti com’è. Ed è verissimo. Tuttavia, se in passato non fu quasi mai possibile indirizzare la trasformazione, guidarla affinché contemperasse la giusta esigenza di cambiamento con i bisogni, le aspettative e le sensibilità di chi abita la città, questo non significa che farlo oggi sia sbagliato, o peggio impossibile. 

La città di Verona. Foto di Serena Dei

È da questa riflessione che muovono le perplessità sulle iniziative connesse al Piano Folin e sulle modalità adottate dall’Amministrazione Comunale per affrontare un dossier tanto strategico quanto delicato. Un progetto che coinvolge sette immobili di proprietà di Fondazione Cariverona, tutti – con l’eccezione di Castel San Pietro – situati nel cuore della città antica, in un raggio che si estende da piazza dei Signori a via Forti, via Emilei e via Garibaldi, per un totale di circa 90 mila metri quadri. Un patrimonio immobiliare imponente, eredità diretta e indiretta – a seguito di una stagione di acquisti piuttosto allegra e spericolata durante la presidenza di Paolo Biasi – di un’istituzione, la Cassa di Risparmio di Verona, che per a partire dalla prima metà dell’Ottocento raccolse i risparmi dei cittadini veronesi con esplicite finalità mutualistiche e di beneficienza nei confronti della parte più povera della popolazione. Non occorre pertanto ripercorrere la complessa vicenda normativa delle Fondazioni bancarie per rendersi conto di come questo patrimonio e la sua gestione riguardino direttamente tutti i veronesi. 

Ciò nonostante, la cittadinanza è stata finora tenuta ben distante da quello che può essere considerato a tutti gli effetti come il più imponente intervento di trasformazione urbanistica degli ultimi trent’anni, che toccherà una delle zone più fragili e delicate del tessuto storico cittadino, percorso in tempi recenti da cambiamenti profondi che l’hanno portato a svuotarsi progressivamente di residenti e di servizi a favore di attività quasi esclusivamente rivolte ai turisti. Sia chiaro: questo processo non è un’esclusiva della nostra città, né è necessariamente latore di sole conseguenze negative. Negli ultimi quindici anni, il turismo ha portato in città benessere economico e nuove opportunità lavorative per molti cittadini, e demonizzarlo, oltre a essere ipocrita, sarebbe profondamente miope. Il punto, semmai, è la gestione del fenomeno per far sì che generi ricadute positive senza snaturare la città e i suoi equilibri sociali, come già accaduto altrove.

Un hotel di lusso verrà realizzato
negli immobili di via Rosa

Per questo, sarebbe stato necessario che un Piano di valorizzazione e rifunzionalizzazione – definizione più opportuna e pertinente rispetto alla “rigenerazione” di recente fin troppo abusata – imperniato sulla realizzazione di un grande hotel da 150 stanze nel cuore del tessuto romano e medievale della città venisse discusso apertamente dalla collettività, invece di essere calato dall’alto tramite conferenze stampa e funamboliche presentazioni pubbliche, tutte orientate a cercare di giustificare scelte quantomeno azzardate come quella, ora assai ridimensionata, di creare in quello stesso punto anche un mastodontico centro congressi da 1800 posti

Fin da principio, il già scarno dibattito sul Piano Folin è stato monopolizzato dal tema dell’offerta turistica: da una parte i sostenitori del progetto, pronti a snocciolare i numeri delle locazioni turistiche per inquadrare il nuovo grande albergo come una sorta di “male minore”, dall’altra i critici attentissimi a polemizzare aprioristicamente contro la creazione di una nuova struttura di lusso. Una guerra di posizione miope, che sbaglia mira rispetto al centro vero del problema: quale sviluppo vogliamo dare a Verona nei prossimi dieci, venti o cinquant’anni? E quali strumenti, quali funzioni, quali contenitori servono a tale progetto di medio termine?

Una riflessione che avrebbe dovuto seguire prospettive e direttrici diverse, con studi sistematici della domanda e dei flussi turistici (quanti turisti in più o in meno verranno ogni anno, spinti da cosa, con quali esigenze), un censimento delle attività ricettive a largo spettro (sappiamo quante di quelle locazioni turistiche possono essere considerate, se non di lusso, di fascia alta? E conosciamo il tasso di occupazione degli hotel di massima categoria?), un’analisi del traffico gravitante sul centro storico, e un’attività di ascolto di tutti gli interessati, dagli albergatori agli esercenti, fino ai residenti. Solo con questi dati in mano avrebbe avuto senso procedere a una disamina del progetto presentato da Fondazione Cariverona, per valutarne le proposte nel merito e, magari, anche giungere a decidere che sì, in quel lotto fra via Emilei e via Garibaldi può aver senso realizzare un albergo.

Via Emilei

Purtroppo, la linea adottata da Fondazione e dalle sue società di gestione immobiliare, e passivamente recepita dal Comune, è stata di tutt’altro segno. Una sorta di maldestra compensazione fra riconversione in ricettivo, congressuale e commerciale di larga parte di questi immobili, e la destinazione di altri – in tempi e modi tutti da definire – a musei e non meglio precisati “spazi sociali”, quasi che la finalità pubblica di secondi potesse pareggiare i conti con gli obbiettivi speculativi dei primi. Ma così come un albergo a cinque stelle non è necessariamente un male… nemmeno un museo nuovo è per forza un bene, se alle spalle manca un progetto organico, un’idea di città, una programmazione per rendere la nuova istituzione viva, economicamente sostenibile, attrattiva.

L’emergenza sanitaria in atto ha dato un duro colpo all’economia turistica della nostra città, mettendo in ginocchio numerose attività e inducendo gli stessi estensori del Piano Folin a qualche ripensamento, come quelli relativi al polo congressuale, sparito dalle ultime relazioni sul progetto. È chiaro a tutti che lo scenario è cambiato, e che il nostro stile di vita uscirà dalla pandemia irrimediabilmente mutato, anche una volta che la crisi sarà superata. Non un utopico mito della decrescita, ma una concreta consapevolezza delle trasformazioni economiche, sociali e urbane in atto suggeriscono di tornare a riflettere sulla città e sul suo futuro, e un’occasione come quella offerta dalla rifunzionalizzazione degli immobili di Fondazione Cariverona potrebbe trasformarsi in un’opportunità unica e preziosa per anticipare il cambiamento. La speranza è che chi amministra la nostra città e il suo patrimonio economico, ultimo residuo dell’importanza finanziaria che fu, non si lasci sfuggire questa possibilità, rimettendo in discussione il Piano e ripartendo da zero con un metodo partecipativo, che senza demagogia coinvolga i veronesi nelle scelte strategiche sul futuro della loro città. Se così fosse, avremmo l’occasione, per la prima volta, di orientare, e non subire, una trasformazione epocale capace di cambiare per sempre il volto di Verona.