Il commercio mondiale ha subito un duro colpo dalla pandemia, segnando nel 2020 un calo del 9,6%, per la prima volta dopo decenni di continua crescita. Seppur con andamento diverso tra beni e servizi, con questi ultimi che tuttavia arrancano (pensiamo al turismo praticamente azzerato in tutto il mondo), per il 2021 è previsto il cosiddetto rimbalzo, con un ritorno alla crescita atteso per il 5,3%. Secondo il World Trade Report 2021 dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), dovremo quindi aspettare il 2022 per tornare al volume di scambi commerciali pre-pandemia ma quel rimbalzo dimostra la sostanziale tenuta della supply chain globale, quella complessa rete di relazioni e scambi interconnessi e interdipendenti che riunisce produttori di componenti, unità produttive e logistica per portare a noi il prodotto finito.

Ammettiamolo, il G20 di Roma non ha prodotto risultati concreti, solo molte dichiarazioni d’intenti ma niente che faccia girare l’economia nel verso giusto. Ha però ribadito che il multilateralismo è ancora vivo e può essere rilanciato, vista la miglior ripresa economica registrata dalle economie più integrate e aperte, rispetto a quel bilateralismo che può figurare solo come “piuttosto che niente”.

Libero (scambio) è meglio

Facciamo l’esempio della “guerra delle salsicce” che infiamma il Regno Unito (in particolare l’Irlanda del Nord) da quando ha lasciato la UE; il commercio tra i due lati del Canale della Manica non è più facilitato da procedure doganali semplificate, esenzione o riduzione di controlli e dazi, con il risultato di forti proteste popolari per gli scaffali vuoti nei supermercati. L’apertura commerciale serve a compensare gli shock esogeni e la carenza di merci specifiche (pensiamo al lievito nei giorni bui del lockdown), in presenza di filiere produttive sempre più frammentate e internazionali. Per fare un vaccino, la statunitense Pfizer ha bisogno di 280 relazioni commerciali in 19 Paesi diversi: situazione limite, ma neanche tanto inconsueta.

Secondo il rapporto del WTO per migliorare la resistenza dell’economia globale la strada più sicura è rafforzare il sistema multilaterale, messo a dura prova da anni di trumpismo dilagante, e non solo negli USA. Viene considerata quasi controproducente la teoria del re-shoring, che mira a riportare “a casa” le proprie controllate delocalizzate all’estero e a tenere sotto controllo e fisicamente nello stesso Stato l’intera filiera di produzione.

La Conferenza Ministeriale del WTO

In questi giorni è in corso a Ginevra la dodicesima Ministeriale dell’organizzazione, che rappresenta in un certo senso gli stati generali del sistema multilaterale del commercio. È il primo summit con gli USA di nuovo al tavolo di negoziazione dopo che Trump aveva bloccato la nomina dei giudici dell’organismo di arbitrato e il primo con alla Direzione Generale la nigeriana Ngozi Okonjo-Iweala.

La direttrice generale del WTO Ngozi Okonjo-Iweala

Il programma prevede sessioni plenarie e altre a ranghi più ridotti, con numerosi argomenti scottanti all’ordine del giorno ma tutti da affrontare con lo spirito comune di rivitalizzare il multilateralismo. È evidente che su questo tutti gli Stati partecipanti si troveranno d’accordo, almeno a sorrisi. Su altri temi, invece, sembra più dura trovare una linea comune.

Il clima e il commercio digitale

Sulla scia della COP26 – altro contenitore pieno di aria amorevolmente fritta – a Ginevra si parlerà certamente delle relazioni tra il commercio e il cambiamento climatico, per arrivare con tutta probabilità a una dichiarazione unanime, anche se di soli intenti, sulla “Sostenibilità negli Scambi Commerciali”, un progetto che vede partecipi anche Cina e USA in quelle che possiamo chiamare prove tecniche di dialogo. Inoltre, un gruppo ristretto di 86 Paesi proverà a negoziare regole comuni per il trattamento dei dati, per l’accesso ai mercati e tutto quanto ruota intorno al comparto in fortissima espansione dell’e-commerce, che presenta forti criticità, come l’incremento esponenziale delle truffe online.

La proprietà intellettuale

Sembra però ovvio che il tema centrale e le discussioni più infervorate riguarderanno questo baluardo del liberismo, i cui limiti sociali sono stati evidenziati dalla crisi sanitaria. Chi possiede le infrastrutture e la ricerca incassa il duro colpo ma sopravvive, mentre chi deve aspettare l’elemosina dei potenti rischia di non farcela. L’Africa ha vaccinato completamente solo il 7% della sua popolazione, con gli Stati Sub-sahariani che in generale non superano il 20-25%.

Nella Ministeriale di Ginevra, i Paesi in via di sviluppo, capitanati da India e Sudafrica, chiederanno la sospensione dei brevetti sui vaccini, in modo da abbassare i costi per le nazioni economicamente svantaggiate e riequilibrare uno svantaggio pesante, sia in termini di crescita economica che di mera sopravvivenza. Gli USA si erano dichiarati favorevoli, con Pfizer e Moderna a dare un segnale positivo liberalizzando le formule di alcuni farmaci anti-Covid, mentre la UE è da sempre più conservativa, sostenendo siano preferibili altre facilitazioni in tema di sola distribuzione e senza danno per le società farmaceutiche (scoprire dove sono è il compito per casa).

Come al solito, il mondo sviluppato dimostra di voler tenere sotto controllo i Paesi emergenti, decidere anche per loro in una nuova forma di colonialismo senza armi, ma non meno letale. Stavolta con Direttrice Generale Okonjo-Iweala potrebbe diventare più complicato trovare giustificazioni credibili, ancor di più alla luce delle proiezioni demografiche.

Ma quale Next Generation!

Nonostante sia l’altisonante nome scelto dalla UE per il suo piano di rilancio verso il futuro, la Next Generation reale sarà sempre meno del Vecchio Continente. La popolazione europea, quasi 450 milioni di persone, da qualche anno ha smesso di crescere, nonostante i flussi migratori, e sta per entrare in una fase di diminuzione assoluta. Si assiste inoltre a un maggior divario tra la curva sempre più alta degli anziani rispetto a quella calante dei giovani.

Gli under25 in Europa sono appena un quarto della popolazione, con un 40% nel mondo e addirittura il 60% in Africa. Circa 50 anni fa, i numeri dei giovani nei due continenti erano praticamente identici, 270 milioni; ora il rapporto è tra i 200 milioni circa a nord del Mediterraneo e gli oltre 800 milioni a sud. Nelle stime dell’ONU, entro la fine del secolo il rapporto salirà a un europeo ogni dieci africani, con i primi che “peseranno” per meno del 5% dei giovani del mondo preso complessivamente.

Un 5% che dovrà fare i conti con le decisioni che si stanno prendendo oggi e che dovrà pagare le conseguenze di eventuali errori di valutazione, di egoismi o miopia. Questo argomento non è all’ordine del giorno ma potrebbe finire nei discorsi ufficiali oppure restare relegato alle conversazioni dietro una tazza di caffè, così spesso le maggiormente significative. Appare però anacronistico ignorare la realtà, o fingere di ignorare la questione.

Non dimentichiamo che “aiutarli a casa loro”, come brillantemente postulato da diversi partiti politici italiani, ha riflessi positivi anche su casa nostra. Creare le basi per uno sviluppo delle economie locali, di un tessuto economico domestico, può favorire la crescita globale e al tempo stesso rallentare la corsa alle migrazioni. Formare i giovani dei Paesi emergenti e garantire loro un impiego sicuro e stipendiato in modo onorevole riduce le disuguaglianze sociali, riaccende le speranze di realizzazione e contribuisce a ridurre la forza lavoro di terroristi e miliziani. La win-win situation che inspiegabilmente nessuno dei leader mondiali ha il coraggio di proporre, se non a parole.

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