Il Sudan ha vissuto anni di dittatura da parte del famigerato presidente Omar al-Bashir, ora in carcere e probabile imputato per genocidio e crimini umanitari presso la Corte dell’Aja. La sua destituzione arrivò con un golpe militare nel 2019 dopo mesi di proteste popolari, che però non accennarono a terminare, nel timore diffuso che da una dittatura si passasse a un’altra. L’esercito fu costretto quindi a trovare un compromesso di governo con la società civile.

Divide et impera

Tale condivisione non è mai diventata completamente pacifica ed è resa complicata dalla presenza di numerose fazioni spesso in forte contrasto tra loro, sia da parte militare che civile. Un’analisi obiettiva del tessuto sociale mostra più divisione che unità, tra ideologie religiose più o meno radicali, ma anche tra le numerose etnie diverse che serbano rancori ancestrali una contro l’altra. A livello militare, oltre ai fondamentalisti islamici che sono trasversali e ai nostalgici del regime Bashir, si denota una forte contrapposizione tra l’esercito regolare (SAF) comandate da Abdel Fattah al-Burhan, e le forze speciali (RSF) del generale Mohammed Hamdan Dagalo, per tutti “Hamditi”, un corpo d’assalto paramilitare voluto da Bashir per le sue operazioni sotto traccia che sono accreditate di controllare l’80% dell’economia sommersa del Paese.

La transizione democratica

Nel tentativo di epurare i militari dal potere, il governo provvisorio guidato da Abdallah Hamdock ha ripetutamente ventilato la necessità di una riforma del settore, chiedendo la fusione dei due corpi e la nomina di nuovi vertici meno divisivi, o meno compromessi, a seconda del grado di politichese gradito. Oltre che di una scelta politica, si tratta anche di una delle richieste del Fondo Monetario Internazionale, che in cambio degli aiuti finanziari pretende riforme in senso democratico sia dell’impianto istituzionale che economico. Hamdock ha trovato però l’opposizione dei due litiganti, ritrovatisi casualmente uniti contro il nemico comune: questa democrazia che costerebbe loro ricchezza e potere, in assenza di altre competenze sfruttabili che sono siano la guerra.

Prove tecniche di golpe

In questo contesto polarizzato, la colpa per il fallito golpe del 21 settembre scorso è stata rimbalzata dai civili sulle flange islamiste vicine al vecchio regime e dai militari sul cosiddetto Empowerment Removal Committee, un ente votato all’eliminazione di qualsiasi influenza dell’esercito. Quanto accaduto in settembre aveva reso urgente il processo di riforma strutturale profonda. Da allora il Sudan è rimasto come in sospeso, aspettando un secondo tentativo, puntualmente arrivato. Solo pochi giorni prima, il premier aveva descritto le pressioni sul governo ad interim e le ingerenze dei militari come la “crisi peggiore e più pericolosa che il paese si trova ad affrontare nel corso della sua transizione”.

Un golpe per la stabilità sociale

Lo stallo politico è stato forzatamente interrotto il 25 ottobre scorso, quando Hamdok ha rifiutato di leggere un comunicato a sostegno del colpo di stato militare in corso nel Paese ed è stato arrestato, insieme a molti dei suoi ministri. Il comandante Burhan ha invocato lo stato d’emergenza (che si traduce, come avvenuto in passato, nell’impunibilità per i suoi uomini) e ha giustificato la sua azione “poiché i dissidi interni al governo stavano minacciando la pace e la stabilità sociale”. Un nuovo golpe per evitare una guerra civile, nelle sue parole; che paiono quasi moderate se messe a confronto con quanto dichiarato al quotidiano “Al Arabiya” da Hanafi Abdullah, il potente ex-capo dei servizi segreti sotto Bashir: “Quello che sta accadendo in Sudan non è un colpo di stato militare ma una correzione del corso della rivoluzione”. Insomma, noi occidentali non abbiamo capito niente, sono loro i buoni della storia.

La forza al popolo

Il Paese versa da tempo in una situazione economica disastrosa, con l’inflazione quasi al 400%, pesante disoccupazione e un debito pubblico di oltre 50 miliardi di dollari, contro un PIL grande la metà e in stagnazione da anni. Handok, economista affermato e già inviato ONU, era riuscito a stabilizzare la moneta e a far tornare investimenti e aiuti esteri, con una promessa di transizione democratica che ha illuso i donatori e dato speranza ai cittadini. Si è dovuto arrendere di fronte ai militari, personaggi che non avrebbero opportunità a livello politico, che hanno un peso solo nel contesto in cui operano.

Ma la pressione del popolo per ritornare sulla via democratica e le massicce manifestazioni di piazza, con milioni di persone in strada a protestare, anche questa volta hanno indotto l’esercito ad ammorbidire la propria linea, dopo i primi giorni di forte repressione, con una decina di morti e centinaia di feriti. Il premier è stato rilasciato, ha potuto discutere al telefono con il segretario di Stato americano Anthony Blinken ed è stato – almeno in via ufficiale – invitato da Burhan a “formare un nuovo governo tecnico, in attesa delle libere elezioni” previste per giugno 2023. Sorridendo all’ossimoro di elezioni libere in un simile contesto, non possiamo che augurare ai sudanesi di riuscire a contenere l’influenza dell’esercito, in un Paese dove a quanto pare la strada per la democrazia è lastricata di golpe militari.

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