In biologia “simbiosi” è un termine abbastanza generico che si usa per indicare vari modi di convivenza tra organismi di specie diversa. Solitamente viene anche utilizzato per designare una stretta coesistenza che assume significati assolutamente diversi in relazione ai modi e ai tempi; nel linguaggio spesso diciamo “vivere in simbiosi” o “essere in simbiosi” per indicare un momento particolarmente felice di una coppia oppure all’opposto dire di una coppia che “vive in simbiosi” può indicare una situazione estremamente negativa, presagio di un dramma famigliare.

C’è però un momento della vita di ciascuno, da quando nasciamo fino alla prima infanzia, in cui la simbiosi con la madre è fondamentale per la nostra sopravvivenza fisica ed emotiva. In questa fase della vita la simbiosi risulta necessaria per affrontare successivamente il mondo con tranquillità. Grazie a questo importante periodo il bambino, mano a mano che cresce, potrà allontanarsi sempre più dalla madre ed esplorare il mondo autonomamente. Questo processo è fondamentale per acquisire un sentimento di sé autonomo, senza dipendere più dalla madre né dal punto di vista fisico né da quello affettivo. Cosa deve accadere simbolicamente, perché questo processo si concretizzi? Freud ci aiuta consegnandoci le immagini e le storie dei miti e delle tragedie greche in chiave simbolica, confermando che “queste cose non avverranno mai, ma sono da sempre”.

Oreste e Pilade contro i nemici in Tauride nel dipinto di Francois Bouchot

E così noi conosciamo ormai Edipo e il suo complesso e in modo analogo seppur opposto, anche il complesso di Elettra e quello di suo fratello Oreste, grazie alle cui tragedie possiamo comprendere che per crescere è necessario simbolicamente uccidere il proprio padre (in Edipo) e la propria madre lasciando il posto, dentro di noi, ad un uomo e ad una donna adulti in grado di autoaffermarsi nel mondo affettivo e sociale. Questi sono processi che devono avvenire nello spazio psichico del percorso di individuazione perché il divenire del Sè è un’esigenza a priori, che dà senso all’esperienza umana. “Non io creo me stesso, ma piuttosto io accado a me stesso” (C.G.Jung). Il che significa che siamo obbligati a ricercare la nostra realizzazione psichica, un percorso individuativo che ci porta alla totalità psichica, al Sè; pena la disarmonia, un disturbo nevrotico o la mancanza di equilibrio psicologico.

René Magritte

E allora, tornando alla simbiosi madre/bambino, cosa succede se non finisce mai? Se, quindi, diventa disturbante o patologica? E quali sono le situazioni, le difficoltà che impediscono alla simbiosi di lasciare il passo a quel processo di individuazione fondamentale per la crescita di una persona? Volendo rispondere in modo clinico e diagnostico diremmo che si potrebbe instaurare un “Rapporto simbiotico madre/figlio”. Ma la diagnosi, pur essendo utile per trasmettere informazioni di dati e ipotesi tra chi collabora nello stesso campo ed essendo fondamentale negli studi epidemiologici, per le organizzazioni sanitarie e per classificare le malattie mentali, da sola appartiene ad un linguaggio che limita, incasella, imprigiona.

Allora, come scrive Stefano Baratta, “per capire meglio cosa accade nel mondo psicologico cerco risposte anche in un pensiero che non chiuda, ma dischiuda; che non definisca ma proponga; che non classifichi, ma amplifichi: un pensiero emotivo”. Avvicinando la lente di ingrandimento sulla figura di Oreste e sul matricidio, possiamo chiederci quale sia il percorso che porta ad un “primordiale” crimine della società e dell’individuo, sconfinando così il limite delle universali ambivalenze ed ostilità del vissuto di un maschio nei confronti della madre.

Si tratta di un percorso, di un disagio psichico che magari dura da anni o di un rapimento della coscienza? Quali sono le responsabilità della madre sociale, del mito, dell’archetipo, della psicologia? Quale giustizia muove Oreste a uccidere sua madre e quale Giustizia lo attenderà? Quali le “motivazioni” che spingono oggi a commettere matricidi e quali le conseguenze della giurisprudenza, della pena o della possibile riabilitazione? Di certo, quella che ritroviamo alla fine della vicenda di Oreste, è una giustizia rinnovata che guarda al futuro piuttosto che pietrificarsi su fatti passati che pure sono incancellabili. È una giustizia volta a ri-conoscere, ri-parare, ri-costruire, ri-stabilire, ri-conciliare, re- staurare, ri-cominciare, ri-comporre il tessuto sociale. È una giustizia caratterizzata dal prefisso ri- che guarda in avanti e allude alla possibilità di una rinascita: senza cancellare nulla- anzi ri-cordando tutto – apre prospettiva nuova per la singola esistenza individuale e per l’intera comunità.

Forse è questa una parte dell’eredità che il dramma attico sembra averci lasciato; ma ne scopriremo altre, dialogando questa sera alle 18.31 sui canali social di Heraldo (Facebook e YouTube) nella diretta streaming con Stefano Baratta, Carlo Piazza e Giacomo Piazzi.

Approfondimenti:

Stefano Baratta, Amarsi: Amore ama ancora Psiche? Moretti & Vitali

Marta Cartabia, Una parola di giustizia. Le Eumenidi dalla maledizione al logos

Alessandro Milan, Un giorno lo dirò al mondo, Mondadori

Riccardo Zerbetto, Sul complesso di Oreste e l’archetipo del matricidio, Giornale storico del cspl

Gabriele La Porta, Il ritorno della Grande Madre, Il Saggiatore

© RIPRODUZIONE RISERVATA