Zingaretti ha fatto bene. Che le sue dimissioni da segretario del PD siano vere e irrevocabili o  strumentali e ritirabili, comunque le ragioni sono chiare: alla prossima burrasca, non vorrà essere lui a dover restare a bordo da solo mentre la nave affonda. Lasciamo stare il fatto che lui stesso sia stato un perfetto prodotto di questo Partito Democratico in costante ricerca di identità e dilaniato da faide interne dipendenti dalle cento correnti e proviamo a fare  proprio ciò che i Dem  faticano a fare: guardare lo stretto presente e il probabile futuro.

Ci sono due situazioni che condizionano il perimetro politico nel quale i democratici si muovono: il nuovo governo e l’assetto del Movimento 5 Stelle. Cominciamo dall’ultimo, perché è proprio nella gestione con il Movimento che il PD si è giocato e gioca buona parte delle sue possibilità di affermare il suo ruolo. Il Governo “Conte-bis” era un recinto garantito, nel quale i Dem potevano pensare di far valere nei confronti dei 5 Stelle la loro superiore maturità politica, a compensazione dei numeri che li vedevano in inferiorità. Un ragionamento comprensibile, però condizionato dalla presenza sempre più importante proprio dell’allora presidente del Consiglio. Il PD, mostrando una sconcertante ingenuità politica, aveva considerato Conte una figura terza, un garante esterno, senza prendere in considerazione che si trattava invece di colui il quale era riuscito a passare soavemente dal guidare un’alleanza con la Lega, condividendo linee decisamente caratteristiche come quella sull’immigrazione, a quella con il centrosinistra. Già una formazione politica che fa un passaggio di questo tipo dovrebbe suscitare qualche attenzione, a maggior ragione chi delle due alleanze è guida e primo protagonista.

Il risultato è che il PD non solo ha agevolato al ricostruzione della verginità politica del 5 Stelle, spendendo forze a mortificando la proprie ambizioni, ma, dopo aver fatto salire a bordo del centrosinistra il Movimento, gli ha anche ceduto spesso il timone. Tutto sommato il rischio era contenuto, visto che all’alleanza parevano non esserci alternative. E allora ecco che la scelta di Zingaretti (ma anche di tutto il PD) è stata di prendere tempo, anzi rallentare il metabolismo politico in una specie di letargo cautelare. Tanto più che i sondaggi sembravano premiare questa linea e dall’altra parte il M5S viveva una sempre più probabile spaccatura che l’avrebbe indebolito anche nelle stime numeriche. Insomma, attendismo strategico.

Renzi e Zingaretti

Che però non prevedeva il fattore Renzi, la crisi di Governo e il nuovo esecutivo guidato da Draghi con dentro quasi tutti. A questo punto al PD si è presentata una serie di variabili impazzite e quasi impossibili da gestire. La maggioranza di governo diffusa, che ha necessariamente diluito a appannato la precedente rilevanza politica di Dem. Lo smarcamento del Movimento 5 Stelle che, non essendo più alleato esclusivo, si ritrovava con le mani libere e soprattutto fuori controllo.

La figura di Conte, pianta, rimpianta e idolatrata anche da una buona fetta di elettorato democratico, che ora era altrettanto libera di cercarsi una casa politica dove capitalizzare il suo seguito. Una bella quantità di malcontenti interni, velocemente cresciuti attorno a chi si è visto scalzare da posti di Governo, immolato sull’altare della discontinuità. A questo punto Zingaretti ha tentato una mossa che voleva essere di recupero di influenza e invece si è rivelata suicida: il famigerato “intergruppo” parlamentare. L’intenzione era con tutta probabilità di imbrigliare nuovamente il Movimento 5 Stelle in un recinto di centrosinistra di cui il PD stabilisse le misure. Un ultimo tentativo di tattica sommersa, giusto leggermente fuori dagli schemi dell’attendismo, ma anche una ghiotta occasione da parte del Movimento di mangiare altre risorse politiche all’interno di quello stesso recinto, passando in un attimo dalla dieta coatta alla scorpacciata.

Giuseppe Conte

I due colpi di scena che hanno reso palese e dichiarata questa mossa, sono poi stati la candidatura di Conte alla  guida dei 5 Stelle e l’intenzione di proporsi per l’ingresso nei socialisti europei. Il primo ha definitivamente intestato al Movimento tutte le attribuzioni di merito di cui Conte beneficiava, il secondo ha fatto ripiombare il PD in una crisi di indentità profonda. Bastava leggere i post indignati di buona parte dei parlamentari democratici, che ricordavano con fierezza il severo esame di integrità ideologica che il PD dovette sostenere a suo tempo per entrare nella famiglia riformista europea, a fronte del quale l’avvicinamento grillino pareva una bestemmia storica intollerabile. Ovvio che in questo pasticcio Zingaretti abbia pensato bene di mettersi in salvo, con dimissioni che sono un ultimatum: o delega da parte di tutti, senza riserve e senza mugugni, o la patata bollente nelle mani di qualcun altro.

Considerando che ora, nella più classica tradizione di apparato, si «aprirà un dibattito interno», si «cercherà una sintesi che rispetti tutte le sensibilità»,si farà appello a «tutte le figure interne al partito che potranno dare contributo di confronto franco e costruttivo», si coinvolgeranno le «varie anime della società civile» (questo più o meno il repertorio delle dichiarazioni possibili dei prossimi giorni), lo sguardo non andrebbe rivolto tanto al PD, quanto al Movimento 5 Stelle che avrebbe il tempo di incoronare Conte come leader e lanciare l’opa definitiva sul centrosinistra. Se così non fosse, il PD passerebbe alla storia come caso unico di partito che ha più fortuna che anima.

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