Più di 40 anni dopo, la morte di Sergio Ramelli – lo studente missino ucciso con una chiave inglese da un gruppo di militanti del servizio d’ordine di “Avanguardia Operaia” – rimane un evento divisivo, brandito da opposte fazioni a guisa di manganello retorico. Prova ne è la proposta di un consigliere comunale veronese appartenente alla maggioranza di centrodestra di acquistare uno stock di fumetti sulla vicenda del giovane assassinato e donarne una copia a ogni scuola del territorio veronese. Pertanto è necessario interrogarsi sulle ragioni per le quali la morte di Sergio Ramelli è ancora oggi una “cleavage” nella società italiana. L’opinione di chi scrive è che il motivo vada ricercato nel fatto che l’assassinio del giovane è divenuto patrimonio polemico della cosiddetta “destra radicale” perché la cultura civile e democratica di questo Paese lo ha sempre più o meno scientemente ignorato. Ramelli era “neofascista” – definizione che all’epoca dei fatti aveva un significato politico ben preciso –. Non vi fu per la sua morte, come del resto per quella di altri militanti di destra, una decisa presa di posizione civile da parte di tutte le istituzioni democratiche che la qualificasse per ciò che era: un assassinio a sangue freddo. E nemmeno fu metabolizzata e inserita all’interno della narrazione civile e dei suoi spazi di discussione. Abbandonata ai margini dalla cultura democratica, divenne patrimonio esclusivo della memorialistica della destra radicale, che fino ai giorni nostri se ne è servita come totem polemico per alimentare il culto reducistico di cui si è sempre nutrita.

Su tale culto occorre, a mio avviso, fare un ulteriore ragionamento. Al di là delle roboanti dichiarazioni machiste, la Destra 2.0 è alimentata da una sorta di “sfigatismo reducista” che abbraccia qualunque causa, purché sia perdente.  Dalla “ridotta Valtellina” al culto della difesa di Berlino nel 1945 e alla memoria dei martiri e delle “belle idee per cui si muore”, fino alle escursioni nel campo della nostalgia degli Stati Confederati del Sud, la destra radicale ha sempre fatto del culto della sconfitta – purché sia “bella”, mi raccomando – uno strumento per la mobilitazione del consenso. Della serie “siamo forti, siamo tosti, ma sotto sotto ci piacciono quelli che perdono”. La memoria di un martire in questo senso si presta perfettamente ad alimentare il “culto del perdente”, che è benzina della macchina propagandistica della destra radicale fin dai suoi albori.

Inoltre, gli assassini del giovane provenivano da famiglie borghesi e di “operaio” avevano solo la denominazione del gruppuscolo di sinistra estrema a cui appartenevano. Al processo che fu intentato contro di loro, più di 10 anni dopo l’assassinio, erano in gran parte divenuti stimati professionisti. Quasi una simbolica anticipazione metaforica della frattura “elite-masse”  che oggi è diventata la narrazione mainstream riguardo alla genesi della crisi politica di inizio del terzo millennio e del sorgere dei populismi di destra.

In questo teatro della memoria si inserisce la proposta del consigliere comunale veronese, che ha ovviamente sollevato un vespaio di polemiche in città e che il consigliere ha difeso anche con un post sui social dove sosteneva che il fascismo non può tornare, aggiungendo così polemica alla polemica. In maniera molto probabilmente fortuita, il nostro consigliere-provocatore in realtà dice una volta tanto una cosa corretta: il fascismo non può ritornare. Esso, come la ricerca storica più aggiornata ha già chiarito in maniera definitiva, è il prodotto di una serie di cause precise che si sono realizzate in un determinato momento storico, (Guerra mondiale, crisi economica globale, collasso delle istituzioni democratiche) e non come vorrebbe la ormai superata storiografia di ascendenza marxista il risultato in qualche modo “necessario” dell’evoluzione della società capitalista. Interpretazione quest’ultima che, pur essendo empiricamente smentita, ha il grande vantaggio di poter essere usata come un “capo continuativo” nel dibattito politico. Se infatti il fascismo è una “regolarità storica” in qualche modo ricorrente, l’allarme per una sua rinascita può essere utilizzato da una fazione come un randello polemico da brandire contro l’avversario. Il fascismo inoltre, come i fondamentali studi di Finchelstein hanno chiarito, non è nemmeno una evoluzione del populismo, pure essendone in qualche modo collegato, in quanto, per poter essere inscritto nell’insieme dei movimenti fascisti, difetta di un elemento essenziale: il culto della violenza, che, lungi dall’essere un componente accessorio dei partiti di destra nati in Europa dopo la Grande Guerra, ne fu ingrediente fondamentale.

I camerati da battaglie con i cuscini della destra 2.0 non hanno nulla a che fare con gli Arditi o gli Stahlhelm forgiati “Nelle Tempeste d’Acciaio” della Grande Guerra, i quali fornirono la truppa d’assalto ai primi movimenti fascisti di massa. Da quel che si può vedere dai loro profili social sono più intenti a brandire calici di vino o bicchieri di birra che non manganelli, oppure a fare “bellicosi” proclami nei quali si richiede agli organizzatori di manifestazioni di sinistra di rifondere le spese per ripulire i graffiti fatti sui muri della città durante le stesse, in base a un vago principio di “responsabilità oggettiva”. Principio che se applicato in maniera generale vorrebbe che politici contigui a gruppi di estrema destra pagassero per pulire i muri della città da graffiti e adesivi inneggiati a “Fortezza Europa”, “Casapound”, “Forza Nuova” e quant’altri. Come dice il saggio: “Sono tutti responsabili oggettivamente con il culo degli altri”.

La proposta di regalare alle scuole il fumetto su Ramelli tuttavia è motivo di interesse in quanto viene a inserirsi in un contesto politico peculiare come quello uscito dalle scorse elezioni amministrative nella nostra città. A Verona, infatti, assistiamo a un esperimento a mio avviso in qualche misura nuovo, del quale la proposta di cui parliamo è un tassello: il tentativo da parte di una minoranza di egemonizzare lo spazio pubblico con narrazioni “alternative” e “di parte”, mascherandole come operazioni “valoriali”.

Un cartellone che pubblicizza il WCF

L’amministrazione attuale è arrivata, seppur legittimamente, al governo della città con i consensi di meno di un veronese su cinque. Politicamente potrebbe essere definita “di minoranza”. Eppure, nonostante questa base di consenso sottile, ha ingaggiato una dura battaglia con il Reale per proporre come egemone la sua visione cosiddetta “valoriale”. Ed ecco quindi il rifiuto di concedere spazi pubblici a ditte che si occupano di organizzare matrimoni “gender”, e, di contro, patrocinare un evento che ha portato nella nostra città un overload di fuffa come il WCF, che si è rivelato un clamoroso boomerang mediatico – oltre che assolutamente inutile, ovviamente –. O, appunto, appoggiare la proposta di distribuire a spese pubbliche il fumetto su Ramelli. “Tirannia dei Valori” la chiamava Schmitt. A questo punto la vera domanda che l’opinione pubblica e i mezzi di comunicazione della città si dovrebbero porre è questa: l’iperattivismo “valoriale” di questa amministrazione è un’abile cortina fumogena per coprire la sostanziale carenza di risultati pratici ottenuti fin d’ora, se si esclude l’opera metodica di affossare le iniziative portate avanti dalla precedente amministrazione, oppure è un tentativo di proporre da parte di un organismo politico che ha competenze unicamente amministrative pregiudiziali etiche che in nessun modo gli competono?