Nasce ufficialmente il Governo Draghi. È ovviamente presto per pronosticare quali saranno gli esiti di quest’avventura, che per il bene di tutti ci si augura sia efficace e produttiva. Di certo, lo si può dire a chiare lettere, il nome di Draghi è una garanzia, soprattutto di fronte a quelle istituzioni europee che a breve ci inonderanno di miliardi per fronteggiare l’emergenza economica causata dalla pandemia. La garanzia del nome, sia chiaro, è molto, ma non basterà se poi la coalizione che sostiene l’esecutivo si sfalderà con il passare del tempo. Occorrerà l’aiuto di tutte le forze in campo per riuscire nell’intento di uscire davvero da questa pesantissima crisi, che il Covid-19 a dirla tutta non ha creato ma, quello sì, accentuato, visto che in realtà l’Italia dalla crisi del 2008 non era mai davvero uscita.

Scorrendo la lista dei vari ministri che hanno giurato appare evidente una cosa: Draghi ha voluto scegliere i “suoi” ministri per quei dicasteri più tecnici e importanti, lasciando – nella logica del compromesso che ha portato a questo governo misto fra tecnica e politica – ai partiti i ministeri che evidentemente lui stesso non considerava strategici. Ed è una scelta ovviamente ponderata, per poter aver fino alla fine le mani libere con una larga coalizione a sostenerlo in tutto e per tutto. Perché in fondo avere ministri del Movimento 5 Stelle, del PD, di Forza Italia, della Lega e pure di Italia Viva significa relegare tutte le altre forze politiche, quelle più estreme, a un ruolo a dir poco marginale. Non ci sarà, di fatto, opposizione e questo non è detto che sia un vantaggio, anzi.

Bene, anzi benissimo per alcune nomine (a cominciare da Marta Cartabia, presidente della Corte Costituzionale, alla Giustizia e Daniele Franco, direttore di Banca d’Italia, all’Economia e Roberto Cingolani, fisico, al neonato ministero della Transizione Ecologica), che rappresentano esattamente quel tipo di figure tecniche e di altissimo spessore che ci si attendeva quando è cominciato a circolare la possibilità di un governo guidato dall’ex Presidente della BCE. Convince in questo senso già un po’ meno, invece – non certo per le enormi competenze ma, più che altro, per i suoi lunghi trascorsi in un’azienda dai molteplici e controversi interessi come Vodafone – la scelta di Vittorio Colao all’Innovazione Tecnologica. Aveva fatto parte della task-force di Conte per la ripresa economica e nel giugno del 2020 aveva proposto un piano in sei step, che però non ebbe seguito. Vedremo.

Fra i vincitori indiscussi di questo periodo c’è sicuramente Silvio Berlusconi, che ha saputo approfittare come pochi di questa impasse creata dal ritiro dell’appoggio al Conte-bis da parte di Renzi per insediarsi di nuovo al Governo con tre vecchie “conoscenze”: Renato Brunetta, MariaStella Gelmini e Mara Carfagna. Dei tre indubbiamente quella che ha lavorato meglio in passato (perché a dirla tutta la Gelmini, ora Ministra per gli Affari Regionali, è ricordata come una delle peggiori ministre della Pubblica Istruzione) è stata la Carfagna, che sul tema delle Pari Opportunità (dove è finita Elena Bonetti di Italia Viva) e la violenza di genere, sia come ministro sia come presidente della Commissione dedicata, ha fatto un lavoro egregio. Desta, però, qualche perplessità la sua nomina a “Ministro del Sud”, dove non capiamo bene quali competenze possa effettivamente avere e dove Provenzano non stava facendo male. Visto che molti ministeri sono stati scelti anche nel segno della continuità (da Di Maio agli Esteri a Speranza alla Salute, da Franceschini alla Cultura a D’Incà ai Rapporti con il Parlamento per arrivare alla Lamorgese agli Interni) forse poteva essere concessa anche a Provenzano la possibilità di proseguire il suo buon lavoro per un territorio, quello del Mezzogiorno, con atavici problemi economici, sociali, infrastrutturali e culturali, e magari impiegata la Carfagna in un ruolo più adatto alla sua esperienza. Ma si sa, il manuale Cencelli alla fine torna sempre a galla in queste occasioni, anche se a farne le spese sono sempre gli stessi: i cittadini. E a proposito di questo nella compagine di Draghi prevale la componente settentrionale (tre ministri su quattro), a differenza di quanto è accaduto con Conte, dove a prevalere era quella meridionale. La base storica della Lega (che, fra gli altri, dopo una vita trascorsa nelle retrovie come uomo ombra dei vari Maroni e Salvini, porta finalmente al Governo Giancarlo Giorgetti, Ministro per lo Sviluppo Economico), ne sarà senz’altro contenta.

In ogni caso inizia oggi una nuova e fondamentale fase per la storia del nostro Paese. Quella destinata a investire nel miglior modo possibile l’ingente quantità di denaro che arriverà da Bruxelles. Dopo qualche tentennamento iniziale, tutti o quasi hanno deciso di partecipare a questa “grande ammucchiata”. Tutti tranne Giorgia Meloni, che con Fratelli d’Italia ha deciso di rimanere all’opposizione, con una (probabilmente finta?) spaccatura nel centro-destra. Della serie Berlusconi e Salvini, per molti aspetti all’ultima spiaggia, danno un colpo al cerchio, mentre la pasdaran della destra italiana dà un colpo alla botte. Che comunque vada sarà un successo. La Meloni, in fondo, ha puntato ancora una volta a distinguersi da questo Governo e a rimarcare la sua coerenza, a dispetto di tutti gli altri partiti che parteciperanno a questa “strana” coalizione trasversale. Un azzardo, forse. Essendo, però, da tutti i sondaggisti data in piena ascesa di consensi forse era l’unica che poteva davvero permetterselo, rischiando un po’ ma in fondo nemmeno troppo. Se le cose andranno bene per Draghi (e quindi per l’Italia) lei non perderà di certo il suo elettorato, da sempre il più “duro e puro” nella coalizione di centro destra. Ma se le cose, speriamo di no, dovessero invece andare meno bene del previsto per lei si profila all’orizzonte un triplo salto carpiato in avanti. E in vista delle elezioni del 2023, non più così lontane, tutto sommato non è poco.

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