Fawad e Raufi incanta quando racconta del suo paese, l’Afghanistan.

Incanta perché lo fa con passione e tenerezza, ma anche con dolore. Assomiglia a quegli innamorati che hanno dovuto allontanarsi dalla propria amata, e dal rifugio in cui si trovano a vivere, continuano a mandarle messaggi d’amore.

Fawad è nato a Kabul, nel 1991, ma dal 2016 vive in Italia. In occasione della Giornata del migrante e del rifugiato, abbiamo fatto una chiacchierata con lui, vista anche la recente uscita del suo secondo libro Ultimi respiri a Kabul. Tra la neve bianca e i lupi neri, ZeL Edizioni.

Fawad e Raufi, foto autorizzata

Fawad, lei hai vissuto sia l’essere migrante che rifugiato. Ci racconta che esperienza è stata il lungo viaggio che l’ha portata in Italia?

«Quel viaggio lo ricordo ancora come lo stessi ancora vivendo. A settembre del 2015 ho lasciato la mia famiglia. Sapevo di avere un viaggio molto lungo e pericoloso davanti a me. Dovevo passare 12 paesi, tra cui il Pakistan, l’Iran, la Turchia, la Serbia, la Bulgaria.

In Iran sono stato arrestato e ho passato due settimane in prigione. Per arrivare in Turchia ho dovuto scalare un’altissima montagna di notte. È stato tremendo. Ricordo ancora la paura, il buio, la salita, la fatica. E poi il giorno dopo la discesa, devastante.

In Turchia ho capito di avere due strade davanti a me: dovevo scegliere se attraversare il mare per arrivare in Grecia o camminare a piedi, chi sa per quanto tempo, via terra passando per la Bulgaria. Ho scelto di camminare, di fare la rotta balcanica. I gommoni mi sembravano troppo pericolosi e i trafficanti degli imbroglioni. In Bulgaria sono stato fermato di nuovo e messo prima in caserma, poi due settimane in un campo chiuso.

Arrivato in Serbia invece ricordo un sentimento nuovo di speranza. La polizia ci ha smistato e io sono stato portato in Germania: Colonia, Monaco e Francoforte sono le città in cui sono stato. Sono rimasto 5 mesi, poi ho deciso di andarmene, di provare in Italia.

Sono arrivato a Udine ad aprile 2016. Sono stato accolto a Pordenone, e lì ho fatto domanda di asilo. Tutto questo l’ho raccontato nel mio primo libro (Dall’Hindu Kush alle Alpi. Viaggio di un giovane afghano verso la libertà, ZeL Edizioni, 2018, nda).»

Durante l’inverno di quest’anno, c’è stata l’ennesima emergenza sulla rotta balcanica. Cosa prova quando sente le notizie sulle condizioni di tutti quei migranti che ancora tentano di arrivare in Europa percorrendo quel tragitto a piedi?

«Io ora lavoro in un centro di accoglienza in provincia di Udine come educatore e sono anche mediatore. Mi capita quindi di incontrare ragazzi e minori che sono arrivati da Trieste attraverso i Balcani. Ogni minore che arriva mi fa rivivere cosa ho vissuto io. Vedo in loro la fatica che ho provato io, lo stesso smarrimento. Ma anche la sensazione di avercela fatta, di essere vivi, di essere arrivati.»

Lei ha ricevuto la protezione internazionale in Italia. Cosa significa avere un documento in cui c’è scritto che si ha il permesso di restare in un Paese?

«Non avere quel documento significa non essere nessuno. Non avere nessuna identità. Non esistere. Il documento di soggiorno è un via libera per ricominciare a vivere, per poter prendere in mano di nuovo la propria vita e darle la direzione che si vuole.

Ricevere la risposta positiva dalla commissione territoriale è stato per me un momento di grande felicità. Finalmente potevo uscire, lavorare, realizzare i miei sogni. Diventare autonomo.

Ci sono giovani che sono qui da 3 o 4 anni e sono ancora senza documento di soggiorno. Non possono fare nulla. È terribile. Se poi i tempi di attesa diventano così lunghi, quel documento non è più solo un obiettivo, ma diventa un’ossessione: passi 24 ore al giorno a pensare al documento e alla risposta che non arriva.

I tempi di attesa troppo lunghi, l’incertezza della risposta è una prova psicologica durissima. Inoltre secondo me, è controproducente sia per il Paese che ospita, sia per la persona che aspetta. Sono anni buttati. È uno spreco di risorse economiche ed umane.»

Nel suo primo libro emerge quanto le sia pesato questo tempo di attesa: non poter scegliere autonomamente per sé stessI…

«Il compito più difficile per un uomo è riuscire a capire per che cosa è portato. Grazie al mio viaggio, a questi anni passati come richiedente d’asilo, ho potuto capire qual è il mio scopo di vita.

Da nessuno sono diventato qualcuno: un nome, una persona con un’identità precisa. Che può dire quello che pensa a voce alta e viene ascoltato.

Dopo 5 anni ho trovato il mio scopo. E come educatore e scrittore lo dico continuamente ai giovani con cui lavoro: dobbiamo tutti poter trovare a cosa siamo destinati.»

Poter scegliere la propria direzione di vita è qualcosa che le era stato tolto anche in Afghanistan?

«In Afghanistan non è possibile scegliere. Non c’è libertà. È molto difficile per chi viene da Paesi come l’Afghanistan, il Pakistan o la Siria far capire cosa significa essere senza libertà. Raccontare cosa significa vivere in quel modo. In una terra che è sempre stata libera come l’Italia, è difficile spiegare cosa significa essere nati in luoghi in cui non esiste nemmeno l’idea della libertà.»

Cosa narra il secondo libro?

«Racconto della mia vita: da quando sono nato fino alla mia fuga. Venticinque anni di vita. Avevo solo un anno quando la mia famiglia è scappata in Pakistan. Sono stato profugo fino a quando ho compiuto nove anni.

Nel 2001 siamo tornati in Afghanistan e abbiamo vissuto tutto il peso del terrorismo. Ho visto tutto andare distrutto. Ricordo le macerie, i miei compagni di scuola mutilati, con le protesi. Da giovane poi ho imparato e vissuto sulla mia pelle cosa è la corruzione. Avevo una mia attività che è stata distrutta perché non riuscivo a pagare le tangenti.

Allora mi sono messo ad insegnare in una scuola superiore. Mi sono appassionato per quel lavoro. Ma nel 2015 c’è stato un attentato potente vicino a casa mia. Tanti miei alunni sono morti, insieme ai loro famigliari. A Kabul, per quell’attentato, ci sono stati 400 morti. Non potevo più rimanere lì. C’era troppo dolore. Non ce la facevo a restare e ho deciso di fuggire.»

Foto di Joel Heard, unsplash.com

Cosa prova ora per la sua terra d’origine?

«Il 15 agosto ho pianto. Non ci credevo. Fino all’ultimo ho sperato che i giornali si sbagliassero. Venti anni di lotta, di guerra per avere un futuro diverso sono stati spazzati via in pochi giorni. E ora siamo al punto di partenza. Peggio. Siamo tornati indietro di 100 anni. È molto doloroso per me.

Nel secondo libro racconto usando il presente perché il mio passato è ancora presente nel mio oggi. È qui. Non se ne è andato. E non parlo mai al futuro: perché in Afghanistan mi hanno rubato il mio domani.»

Che prospettive vede per l’Afghanistan?

«Vedo un lungo periodo molto buio. Temo una storia simile a quella dell’Iran. I nuovi talebani ci hanno garantito la sicurezza ma a scapito della libertà. Limitano la possibilità di accesso all’istruzione, per esempio. Vogliono mantenere il popolo nell’ignoranza per poterlo comandare meglio. Tra una generazione avremo di nuovo figli che non sanno leggere, che non comprendono i testi, le leggi. Questo mi fa paura. L’ignoranza crea danni ad un popolo, tanto quanto le bombe.

Per questo non smetto di parlare. Anche se c’è la paura, non posso smettere di chiedere che venga garantita a tutti la possibilità di studiare, di andare a scuola.»

Foto di Sohaib Ghyasi, Unsplash.

Fawad è un uomo innamorato che soffre per la sua patria e le dedica poesie in una lingua straniera. Questa è una sua poesia che ci ha permesso di pubblicare. Si intitola, ovviamente, Afghanistan.

Giuro sulle lacrime cadute
delle tue mamme vedove.
Giuro sui piedi scalzi
dei tuoi figli in cammino per la scuola.
Giuro sui volti stanchi dei tuoi uomini
scomparsi per un pezzo di pane.
Giuro sulla tua terra
che non è dimora ai corpi mutilati,
sulla tua aria
che ha l’odore della pelle morta,
sulla tua acqua
che è impregnata del sangue gelido,
e che in me fanno nascere un amore immortale.
Giuro sulla tua oscurità
che accompagna la notte e il giorno,
ma nulla è chiaro quanto la tua innocenza.
Giuro su di te
che sei la mia madre, la mia patria.
Finché questo corpo avrà l’anima
porterò la tua voce ovunque,
in ogni cuore che incontrerò,
mi prenderò cura di te, perché io sono te
e tu sei dovunque.”

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