L’unione, si sa, fa la forza. E l’unione centrista del Partito Democratico, in questo caso, è riuscita a “forzare” il fronte socialista nel cosiddetto Super Tuesday, il grande e ormai tradizionale evento in cui si celebrano le primarie del Partito Democratico in 14 dei 50 Stati Uniti d’America per identificare lo sfidante per la Casa BIanca. E il centrista Joe Biden, che fino a solo una settimana fa veniva considerato all’unanimità poco più di un cadavere politico, anche grazie al ritiro di tre candidati in competizione per lo stesso spazio politico (Tom Steyer, Pete Buttigieg e Amy Klobuchar) si è sorprendentemente imposto nella maggior parte degli stati (ben nove). I numeri di Biden sono risultati molto migliori di quelli apparsi nei sondaggi, nessuno dei quali aveva previsto la sua vittoria in Massachusetts, né i suoi risultati positivi in ​​Carolina del Nord e Virginia. Perfino in Texas, dove la campagna di Sanders aveva portato a un gigantesco sforzo di mobilitazione dei voti con l’obiettivo di ripetere la sua schiacciante vittoria in Nevada di dieci giorni fa, Biden è riuscito a superare l’avversario. Il risultato finale è che Biden si è imposto in una lunga serie di stati, in alcuni di essi in modo schiacciante. Ha vinto in Virginia, dove ha persino superato il margine con cui Hillary Clinton aveva eliminato Sanders nel 2016, ottenendo metà dei voti e ha vinto, poi, in quattro stati del sud – Arkansas, Carolina del Sud, Alabama e Tennessee -, in gran parte grazie alla sua popolarità nei confronti della comunità afroamericana, che di certo non dimentica il fatto che Biden è stato il vice del primo presidente nero della Storia degli Stati Uniti, Barack Obama; ha vinto in Minnesota, anche perché la senatrice di quello Stato Amy Klobuchar ha chiesto il voto per Biden quando si è ritirata dalla gara domenica e lo ha fatto, infine, anche in Oklahoma. La vittoria di Biden è stata tanto larga che l’altro grande candidato del centro, il miliardario Michael Bloomberg, ha già annunciato il suo ritiro dalla gara, dopo aver speso oltre mezzo miliardo di dollari nella campagna. Per finire in quasi tutti i casi, al terzo posto, distante anni luce dai primi due. Un risultato che definire flop è riduttivo, visto che ha vinto solo alle Isole Samoa (che contano 6 delegati sui complessivi 3979). Troppo poco per pensare di poter proseguire.  

Biden (a sinistra) e Sanders (a destra)

Il Super Tuesday ci permette di fare un paio di considerazioni. La più ovvia è che a dispetto dei sondaggi nelle ultime 48 ore si è registrata una massiccia concentrazione di voti utili per il centrista Biden, su cui ormai si concentreranno le speranze dei Dem più moderati. E Sanders, dal canto suo, evidentemente non è riuscito a espandere più di tanto la sua base elettorale rispetto a quella che aveva nel 2016, quando perse le primarie contro Hillary Clinton. Alla luce di quanto è successo la gara appare radicalmente ribaltata. Fino a ieri, l’unica cosa che (forse) era in dubbio era se Bernie Sanders avrebbe ottenuto la maggioranza assoluta dei delegati alle primarie, con la Convention democratica, in programma a luglio, che sarebbe stata di fatto una sua semplice incoronazione a candidato democratico per le Presidenziali. Ora, al contrario, la vera domanda è diventata: “fra Sanders e Biden chi vincerà?” Le possibilità di una Convention in cui tutto è deciso prima ancora che inizi si sono, infatti, drasticamente ridotte. E ciò apre anche le porte a uno scontro ancora più grande tra i democratici di destra e di centro, soprattutto perché i seguaci di Sanders negano la legittimità ai rivali, che accusano di far parte di quello stesso establishment che vogliono combattere. Lo stesso senatore del Vermont conclude sempre i suoi raduni attaccando “Contro l’establishment repubblicano e contro l’establishment democratico”. E poi ci si chiede perché i Democratici USA non lo vedano di buon occhio, per usare un eufemismo. «A dirla tutta i Dem sono presumibilmente consapevoli che la sfida elettorale che si terrà a novembre per la Casa Bianca sarà per loro la più difficile da vincere» spiega il noto americanista veronese Alessandro Tapparini. «Spodestare Trump appare per tutti, oggi come oggi, piuttosto complicato. Meno irrealistico, invece, potrebbe essere conquistare il Senato, dove sono attualmente in minoranza ma per pochissimi seggi, e conservare la Camera spostando così l’ago della bilancia. Negli Stati Uniti c’è un detto che dice “Hunt where the ducks are”: caccia dove si trovano le papere, il che vuol dire porsi e tentare di conquistare obiettivi fattibili. La battaglia che ha più senso mettere al centro per i Dem, in somma, è quella per la maggioranza parlamentare che permetterebbe di limitare il più possibile il potere di Trump, così com’era d’altronde era successo ad alcuni suoi predecessori come Clinton, Bush e Obama. Un copione, insomma, che negli ultimi trent’anni abbiamo visto più volte, quello cioè di un presidente che ad un certo punto del suo mandato si vede contro la maggioranza parlamentare. E i Dem sanno bene che il tipo di candidato che cerca di farsi eleggere alla Casa Bianca ha poi un riflesso anche sulla campagna elettorale dei Deputati e dei Senatori che poi si candidano per lo stesso partito. Sanders è, però, quel tipo di candidato che mobilita molto un certo tipo di elettorato e funziona bene in certe aree geografiche del Paese, ma sta dimostrando di avere grossi limiti su altre fasce di elettorato e in altri Stati e altre regioni. Avere lui come candidato alla Presidenza, quindi, potrebbe essere nocivo per molti candidati alla Camera e al Senato del Partito Democratico ed è per questo che i Dem si stanno compattando, facendo fronte comune, per tentare di ostacolarlo in tutti i modi.»

Un comizio elettorale di Bernie Sanders

A dispetto di ciò, però, Sanders ha comunque ottenuto nel SuperTuesday abbastanza voti per rimanere ancora un temibile rivale per Biden. Il leader della sinistra più estrema ha vinto come da previsioni nel suo stato d’origine, il Vermont, e in diversi paesi posti geograficamente a ovest rispetto al Mississippi, ideale linea di demarcazione di queste primarie: Colorado, Utah e, ​​soprattutto, California. Riflettendoci pur avendo complessivamente perso questa tornata elettorale, Sanders rivela di avere ancora molto ossigeno per continuare la sua battaglia. Dal Vermont, Sanders ha insistito sull’idea centrale della sua campagna, che ha conquistato – gli va dato atto – la maggior parte dei giovani. “Stiamo per affrontare l’establishment aziendale e l’establishment politico e non possiamo pensare di battere Trump con lo stesso tipo di vecchia politica”, ha affermato. Quattro anni dopo aver perso contro Hillary Clinto, Sanders continua a monopolizzare il fianco sinistro dei DEM e davanti a lui una serie di aspiranti moderati si stanno cannibalizzando a vicenda, uno dopo l’altro. E se andiamo a ben guardare, in termini pratici non è davvero ancora chiaro chi abbia davvero vinto. Il motivo è dalle primarie vengono fuori i delegati che votano per il candidato alla Convention. E nelle cosiddette regole democratiche, è impossibile determinare con esattezza quanti delegati abbia effettivamente ciascun candidato fino a volte a pochi giorni – a volte addirittura settimane – dopo lo svolgimento delle votazioni. Apparentemente, tuttavia, Biden prenderà il comando, il che rappresenta un duro colpo per il morale dei seguaci di Sanders. Quindi la corsa continua. Il centro del Partito Democratico ha serrato i ranghi – Barack Obama in persona ha chiamato Buttigieg per chiedergli di farsi da parte e sostenere Biden – e ha dimostrato che i suoi elettori sono molto più di quelli alla sinistra di Sanders. L’obiettivo comune dichiarato è quello di sconfiggere Donald Trump e il modo per raggiungerlo sarà deciso nelle prossime settimane o mesi. Di certo c’è che in un momento storico che vede, fra le altre cose, un’insolita partecipazione dei giovani, delle varie minoranze e delle donne alla politica, la presidenza di quella nazione più importante del mondo è diventata una questione tra tre settuagenari bianchi.

Joe Biden indica la strada