«Sono rimasto tra i pochi che hanno vissuto l’esodo post-bellico da Fiume. La mia memoria mi fa essere testimone storico, ma a distanza di anni comprendo quei fatti in una prospettiva più ampia. Oggi vorrei che ci fosse uno sguardo più critico, capace di mettere a confronto le ragioni delle opposte fazioni. Il risentimento è legittimo, ma non deve impedire di progettare il futuro, che sia a vantaggio della crescita umana di tutti». Giorgio Dinelli, classe 1937, una lunga carriera come ingegnere elettrotecnico in Enel, della sua infanzia fiumana conserva ancora molti ricordi.

I suoi genitori erano nativi di Fiume, il nonno paterno invece proveniente da Rovigno e quello materno da Chioggia. La serenità della convivenza con le altre etnie nella principale città del golfo del Quarnaro ha tratteggiato i primi anni della sua vita, fino a quando dopo l’8 settembre con l’armistizio di Cassibile ci fu l’occupazione tedesca e l’inclusione alla Zona d’operazioni del litorale adriatico. Formalmente sotto giurisdizione della Repubblica sociale italiana, in pratica in mano all’esercito nazista.  

«Anche se ero un bambino percepivo i segnali della crisi. Ricordo che già con l’entrata in guerra degli Stati Uniti la gente capì che le cose avrebbero preso un’altra piega, rispetto alla fantomatica vittoria con cui il regime continuava a catechizzarci. Poi con i bombardamenti, le fughe nei rifugi ricavati nelle cavità della roccia carsica, la devastazione di molte case e non solo dei punti strategici, come i cantieri navali o la raffineria, il clima mutò del tutto. Già solo la presenza tedesca aveva raggelato la città: se prima le persone amavano fermarsi a chiacchierare dopo il lavoro, ora ci si salutava appena, di corsa. Oltre alle carenze alimentari, all’uso delle tessere annonarie, per strada c’era un diffuso timore.»

La città di Fiume in una cartolina del 1937

La persecuzione ebraica era iniziata a Fiume nel 1940 in applicazione delle leggi razziali (il prefetto Temistocle Testa, in carica fino all’armistizio, fu un solerte esecutore della deportazione ebraica, come riportano numerose testimonianze documentali e proprio in quel clima operò il reggente della questura di Fiume Giovanni Palatucci, che il 10 febbraio 1945 morì a Dachau, secondo gli storici più per il suo ruolo di informatore degli inglesi che per i meriti di protettore di migliaia di ebrei perseguitati, a molti dei quali però ha comunque garantito la salvezza, ndr).

Con l’arrivo dei tedeschi, la deportazione proseguì senza sosta: «Nel nostro condominio viveva una famiglia ebrea. Vennero una notte a prendere il padre e il figlio, di loro non si seppe più nulla. Ma della proporzione della persecuzione non si aveva la misura, si sapeva che sparivano, non capendo però che dietro c’era un piano di eliminazione.

Ricordo con chiarezza però anche episodi di ritorsione nei confronti di famiglie di origine slava. Alcuni funzionari fascisti provenienti da altre regioni italiane applicarono duramente azioni di repressione, con aggressioni, case bruciate».

Eventi che Dinelli attribuisce a quel processo di italianizzazione forzata voluta dal fascismo, praticata con metodi che definisce settari. «Di punto in bianco bisognava osteggiare i croati, una popolazione che in quell’area era sì una minoranza, ma storicamente presente, insieme a comunità austriache e ungheresi. Fino a quel momento la convivenza era pacifica, ci si sentiva innanzitutto fiumani, tanto che la lingua comune era il dialetto, di impianto veneto con prestiti dallo slavo e dal tedesco. Mio papà aveva amici croati con cui ha mantenuto un rapporto per molto tempo, anche quando ce ne andammo. Ed era vera amicizia, non semplice conoscenza.

Le autorità che imponevano questa discriminazione non erano del posto e sfruttavano l’irredentismo che aveva animato la città, manipolando l’aspirazione di essere italiani per respingere e prevaricare chi non lo era. Si arrivò ad esempio a proibire in tutta l’Istria e la Dalmazia le liturgie in croato, così pure le scuole con insegnamenti in quella lingua furono abolite. Ne derivò un astio tra la popolazione che fino a quel momento non c’era.»

Con la presa di Fiume da parte delle truppe jugoslave nel maggio del 1945 iniziò una stagione diversa, fino a quel 10 febbraio 1947, in cui si sottoscrissero i Trattati di Parigi che sancirono la cessione dei territori alla Jugoslavia. Il governo militare che per due anni si instaurò in città mostrò subito il suo volto, praticando epurazioni e omicidi nei confronti non solo di chi era compromesso con il fascismo e con i nazisti, ma anche di chi poteva porsi come oppositore politico.

«Chi non era d’accordo veniva fatto fuori – riprende Dinelli -. Chi restava doveva collaborare, altrimenti era bollato come nemico del popolo, correndo un grande pericolo di vita. Mio padre era direttore delle imposte dirette: se con i tedeschi era riuscito a non essere coinvolto direttamente, ora non aveva molta scelta. I titini dovevano prendere il controllo anche economico della città e necessitavano del supporto tecnico degli amministratori locali.

Nel 1946 aveva 48 anni, era al culmine del suo percorso professionale, ma lasciò tutto. Aveva vissuto la Fiume dell’impero austroungarico, in cui sostenne i suoi ideali irredentisti: non poteva proprio accettare di obbedire a un governo che italiano non era. Se ne andò in Italia in cerca di opportunità per portarci via. Ci volle un anno: prima si recò a Trieste, poi a Venezia, sempre con incarichi precari. Intanto noi lo aspettavamo, ma l’aria era pesante. Un giorno gli ispettori del Comune vennero a casa nostra dove vivevamo in affitto e ci dissero che avremmo dovuto andarcene. Quella casa secondo loro era troppo per noi. Mia mamma doveva badare oltre che a me anche a due sorelle più piccole, di cui una allora aveva poco più di un anno. Per fortuna, mentre lei cercava di contrattare del tempo per poter trovare un’altra sistemazione, mio padre riuscì a trovare un posto migliore a Perugia».

La storica immagine della nave Toscana durante l’abbandono di Pola

Un salvataggio da parte del destino: imballati alla bell’e meglio i mobili, la famiglia raggiunse la nuova destinazione con un viaggio rocambolesco, dato che anche il ponte sul Po era stato distrutto dai bombardamenti. Il capoluogo umbro divenne la nuova casa per il piccolo Giorgio, che riprese subito la quarta elementare e lì finì il ginnasio. Poi un altro incarico paterno a Ferrara trasferì la famiglia Dinelli: lì Giorgio concluse il liceo, fece ingegneria a Padova, quindi dopo la laurea entrò come ricercatore in Enel. «Siamo stati fortunati: molti italiani di Fiume allora non capirono che non c’era tempo da perdere. In tanti rimasero, sperando di poter riprendere la propria vita dopo il conflitto.

Si sapeva però che la gente spariva, che veniva gettata nelle foibe, che chiamavamo “i busi”. Bastava anche esprimere un giudizio critico, si viveva nel terrore di un’ideologia micidiale. Non ci si poteva difendere, non c’era un tribunale, un processo. Semplicemente, ti prendevano e ti facevano fuori.»

Di quel padre che affrontò gli eventi con tempismo, ma che era stato anche segretario particolare del senatore del Regno Riccardo Gigante, fiumano di nascita, protagonista dell’irredentismo italiano, poi sindaco e podestà, per tre settimane governatore della provincia di Fiume fino all’arrivo dei tedeschi, quindi prelevato dall’Ozna – il Dipartimento per la Protezione del Popolo, parte del servizi segreti militari jugoslavi – e fucilato poco dopo (i suoi resti sono tornati a Udine giusto un anno fa, ndr), Dinelli ha soprattutto episodi personali da raccontare.

«Erano tempi molto duri, per tutti. Quando siamo arrivati in Italia abbiamo trovato una buona accoglienza, ma non ci si raccontava nulla. Tutti erano alle prese con le proprie difficoltà, non c’era spazio alle confidenze né all’ascolto. Ho ricostruito i fatti a posteriori, perché in casa si facevano solo degli accenni. Era chiaro però che mio padre non aveva condiviso l’approccio fanatico del regime fascista, dissentiva all’imposizione di una monocultura. Per lui l’identità di Fiume era di una città aperta, tollerante, in cui la stessa comunità ebraica era storicamente fiorente. Sono tornato in quei luoghi una volta con lui, ma non è stato facile. Nel tempo rimasi in contatto con un suo amico croato, rimasto a Fiume. Andai a trovarlo negli anni di Tito e ricordo che trovai una città sporca, buia. Erano i primi anni Sessanta, la città gioiello era diventata triste, nei negozi le vetrine vuote esponevano solo il ritratto di Tito e la bandiera nazionale. Il regime comunista aveva applicato la repressione in primis con noi italiani, ma poi l’ha fatto anche con chi è rimasto, sloveno o croato che fosse.»

A fronte di migliaia di esuli giuliano-dalmati che hanno vissuto una difficile accoglienza una volta arrivati in Italia, negli anni seguenti l’inserimento nella società di una nazione in ripartenza è andato a buon fine. «Comprendo che ci siano stati dei conflitti, tutto il Paese era in ginocchio. Ci sono state manifestazioni di ostilità, sull’onda di posizioni politiche. In alcuni casi agli esuli si appiccicò l’etichetta di reazionari fascisti: si pensava che il comunismo fosse il paradiso in terra, per cui fuggire da quei luoghi era di conseguenza indice di una qualche colpevolezza.

È stata un’avversione tutto sommato minoritaria, però essere stritolati dalla retorica dell’ideologia è tremendo, perché allora le persone non contano più nulla.»

«Oggi quella vicenda storica dovrebbe aprirci gli occhi: dissento quando la si radicalizza, senza guardare gli eventi nella loro complessità – riprende l’ingegnere, divenuto da qualche anno veronese d’adozione -. Il Novecento è un secolo pieno di travolgimenti, la geografia ha visto mutare tragicamente i suoi confini e, obiettivamente, c’è chi ha pagato di più in quegli anni. Bisognerebbe ora fare un passo avanti. L’umanità cresce quando si unisce, non quando si divide. Vedo qualche forma di strumentalizzazione intorno al 10 febbraio, forse sbaglio a pensare che certe sparate non contino poi molto. Però intanto c’è chi sta lavorando per far emergere la verità dell’esilio giuliano-dalmata, in chiave di dialogo e non di contrapposizione. Guardo come ad esempio sta operando l’associazione dei Fiumani Italiani nel Mondo-Libero comune di Fiume in Esilio, che collabora con le autorità di Fiume in modo che questa vicenda storica non sia più respinta e negata».

Di quel passato meglio parlare ancora e ancora, ma nulla potrà cambiare l’impatto sulla vita di chi in quei giorni c’era e ne serba il ricordo. «Noi giovani esuli abbiamo imparato a considerare il mondo come casa nostra. Nella mia vita ho girato molto, in Italia e all’estero e ovunque mi sono sentito a casa. Sono anche tornato in anni più recenti a Fiume, ritrovandola bella, luminosa, con la gente serena per le strade. Ma non è più la mia città e in nessun luogo posso dire di avere le mie radici.» 

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