Molly McCully Brown è una giovane donna americana, nata con una paralisi cerebrale, condizione che influisce sulla capacità di movimento, provocando rigidità muscolare e tremori. Cresciuta dentro e fuori dagli ospedali, trova una ragione di speranza nella scrittura: produce libri tra poesia e saggistica, che hanno in comune una visione della fragilità umana considerata come un limite ma anche come una “buona scusa” per superare se stessi e trovare il modo di brillare. Collabora con “The Guardian” e, in occasione del lancio europeo del libro “Places I’ve taken my body” (letteralmente, “Luoghi dove ho portato il mio corpo” non ancora disponibile in italiano) ha voluto parlare del sesso, tema che molti non riescono nemmeno ad associare a una persona disabile.

La sua frase più potente potrebbe essere «So che ve lo state chiedendo e io ve lo dico: il sesso è possibile, si può fare!». In effetti però, sembra per molti un tabù. Molly stessa racconta di aver sentito un compagno di scuola, che, con tono gentile, diceva agli amici di provare tristezza perché lei sarebbe morta vergine.

«Non aveva detto le solite frasi tipo “non potrei mai farmi una storpia” o “può fare sesso una così?”. No, lui aveva proprio tirato un confine tra il mio corpo e il paese delle voglie. Non importava che la verginità fosse già al tempo superata, che già mi avessero detto “ti amo” e l’avessi detto anch’io. Ero sicura che il ragazzo in mensa avesse ragione, non sarei mai stata il tipo che chiunque può desiderare.

Il mio corpo era una terra di errori e dolore, il miglior tentativo di un chirurgo, qualcosa da gestire e con cui fare i conti ogni giorno. Era un posto da lasciare se volevo andare in cerca di felicità e liberazione

Per anni, Brown non riesce ad accettare la parte di sé che desidera e prova piacere. Scatta come un animale selvatico al minimo rumore o se viene toccata e, dopo anni in cui ha pensato che fosse per quel suo cervello difettoso, si rende conto che si tratta di un trauma antico, per un’infanzia a essere sempre toccata e maneggiata senza chiedere permesso, a sentir parlare del suo corpo come se non fosse nella stanza. Partecipava a uno studio clinico sulla paralisi cerebrale e, un paio di volte l’anno, passava un pomeriggio in un laboratorio camminando su un tappeto speciale, con sensori appiccicati al corpo per ricreare la sua forma in un computer. Ricorda che i primi filmati di queste sessioni erano carini, anche se il costume da bagno è sempre troppo grande o troppo piccolo. Le riprese da ragazza sono più difficili da guardare e ancora si chiede se almeno uno dei medici vedesse una ragazza seminuda, quasi una donna, e non solo un «cavallo zoppo».

Molly convive con un corpo imprevedibile, con dolori cronici che la abituano ad abbandonare se stessa, a ignorare il suo corpo finché proprio non pretende attenzione. Parla di un un mormorio basso di sofferenza, la frequenza alla base di tutto il resto e dei giorni “buoni” in cui sente solo quello, senza improvvisi cambi di tono. Sono i giorni in cui il suo corpo obbedisce e le permette di camminare per brevi tratti, di lavorare. Giorni in cui può perfino sorridere al solito commento benpensante “sei troppo bella per stare su una carrozzina”.

Molly McCully Brown. Photograph: Marco Giugliarelli

«Da adolescente, il mio corpo improvvisamente ha iniziato a cadere a pezzi. Subii un nuovo intervento chirurgico, ingessature a tutta gamba e lo strazio di un paio di ingombranti tutori di metallo. Ero talmente concentrata sul dolore e sull’essere costantemente spaccata e riaggiustata dai dottori che mi ci vollero anni prima di riuscire a guardarmi allo specchio e vedere una persona. Una donna. E per capire che esisteva un altro modo in cui volevo essere toccata. Ancora adesso, a volte a letto il mio uomo si ferma, mi passa una mano sulla faccia e chiede “dove sei amore? Torna qui”. La verità è che i miei primi episodi di voglia sessuale sono capitati quando il mio corpo era un attrezzo di cui non mi potevo fidare. La mia esperienza fisica era talmente piena di paura e sofferenza che consideravo il desiderio inaffidabile, come se il piacere avesse potuto in un secondo trasformarsi in dolore. Copiavo gli atteggiamenti delle mie compagne fingendo desiderio ma non mi potevo permettere di credere a un futuro realistico per me in quel tipo di intimità. Per sopravvivere dovevo restare a distanza di sicurezza da me stessa e mi rendo conto ora che forse sto ancora cercando di colmare quella distanza».

Nessuno le parla mai del suo corpo se non in termini medici o utilitaristici. Le dicono come provare a ottenere la massima mobilità con la minima sofferenza, mai che la mobilità avrebbe potuto darle piacere. Sente la mancanza di modelli, di persone con la sua disabilità sui rotocalchi o in tv, persone che fossero felici e realizzate. Addirittura innamorate o madri. Vive diverse relazioni e racconta degli episodi di pietismo in pubblico, con persone che guardano il partner di turno con ammirazione per il sacrificio, di uomini con cui ha creduto davvero potesse funzionare, finché non le hanno chiesto se aveva bisogno di aiuto per tagliare le unghie dei piedi. Altri che l’hanno trattata come un feticcio sessuale, eccitati dalla sua vulnerabilità, che si sentivano potenti a sapere che non avrebbe potuto scappare. Molly fa tanto sesso, rifiutando avance non gradite e pentendosi a volte di un sì sbagliato, combinando i guai di tutte le giovani donne.

«Viviamo in un mondo che dà per scontato che un disabile non abbia sesso, sia immaturo sotto quel profilo. Avrei tanto voluto che qualcuno nelle mie condizioni mi avesse detto, quando avevo 14 anni, che in effetti il sesso è possibile. Sono una donna che desidera, in modi sia astratti che concreti. Credo anzi che l’abitudine a stare in bilico tra piacere e dolore mi abbia fatto imparare a gestire il mio corpo in modi che nessun medico potrebbe anche solo immaginare».

La copertina del libro tratta dal sito ufficiale https://www.mollymccullybrown.com/places-essays

Molly McCully Brown ha 28 anni e ancora non si è riconciliata con se stessa, non può dire che il ragazzo in sala mensa avesse torto o che ha smesso di uscire dal suo corpo in caso di necessità, anche nei momenti di piacere e gioia. Vorrebbe poter dire che ora sa come si sta con un compagno che vede il suo corpo, le cicatrici e il dolore che ha dentro, che sa darle il supporto di cui ha bisogno e comunque vederci anche sesso e desiderio. Ma non è ancora a quel punto.

«Ci sono giorni in cui mi chiedo se il mio corpo potrebbe sopportare una gravidanza, se potrei fisicamente essere una buona madre; temo che il mio orologio biologico batta più veloce, che il mio corpo si stia esaurendo, sia esausto della sofferenza. In altri momenti mi sento viva, con i miei progetti da realizzare, sento che sono una donna che può inciampare, soffrire e desiderare – ma anche essere desiderata. Il punto forse è che non esiste una riconciliazione perfetta, ma solo il modo in cui riesco a tenere tutto in equilibrio, incredibilmente faticoso e onesto.».

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