E così la Presidenza Trump finisce nella violenza. Gli ultimi drammatici avvenimenti suggeriscono alcune considerazioni: abbiamo assistito a una “profanazione” del Parlamento americano. Mai successo nella storia del Paese; bisogna risalire al 1814 per registrare l’incendio del Campidoglio, ma allora fu opera degli inglesi, nel quadro di una breve guerra scoppiata tra i due Paesi. La profanazione colpisce una istituzione sacra, il Congresso americano e questo resterà come una macchia indelebile sull’operato del Presidente Trump, che ha forzato le cose perché arrivassero a tal punto.

La responsabilità del Presidentee è indubbia: dopo aver attizzato per settimane l’odio e la violenza, continuando a parlare di una «vittoria rubata», era prevedibile (anche se non certo auspicabile) che la situazione degenerasse. Però nessuno pensava fino a questo punto.

Per tentare di capire meglio gli ultimi avvenimenti bisogna soffermarsi sulla psicologia di Trump, persona dotata di un “ego” straordinario, incapace di  accettare qualsiasi forma di sconfitta. Se esaminiamo il suo quadriennio, infatti, troviamo che Trump ha sempre dato degli avvenimenti una “lettura alternativa”, in parte con ragione (come ad esempio gli indebiti vantaggi acquisiti dalla Cina o i negativi effetti della delocalizzazione), in parte in modo discutibile (come sull’immigrazione ), in parte decisamente errata (la mancata protezione dell’ambiente e del clima, misure sanitarie contro la pandemia e da ultimo il risultato elettorale). Per Trump non esiste la sconfitta, ma solo il “complotto” degli avversari e  brogli elettorali, che gli hanno impedito di conseguire la rielezione. Ma si potrebbe persino supporre che nel suo intimo Trump fosse davvero interessato alla rielezione quanto piuttosto alla sublimazione della sua “invincibilità”. La campagna elettorale in Georgia per la elezione di due senatori fondamentali per garantire ai Repubblicani la maggioranza al Senato è stata da Trump condotta in modo totalmente errato. Egli non ha aiutato i due candidati a vincere (ricordiamo che non più di due settimane or sono entrambi i repubblicani avevano tre punti percentuali di vantaggio!), ma li ha obbligati ad appoggiare le sue tesi sulla «vittoria rubata». Impedendo di concentrasi sulla illustrazione dei loro programmi elettorali, ha finito con l’alienare loro parte dello stesso voto  repubblicano, perché in queste elezioni locali sono i temi cari alla gente che decidono il risultato, non quelli nazionali o di politica estera. E dire che la Georgia aveva un valore simbolico, perché i democratici non avevano mai vinto in questo secolo, neppure con Obama, in questa roccaforte repubblicana. 

Altra responsabilità di Trump è l’aver distrutto la compattezza del Partito Repubblicano: ricordiamo che nel 2016 una parte rilevante dell’establishment si era pronunciata contro il nuovo candidato, arrivando addirittura a proporne la sostituzione con un candidato “più adatto” prima delle primarie. Poi il Partito si era gradatamente allineato sulle posizioni trumpiane, ma con questo assalto alle Istituzioni, il Partito si è di nuovo fratturato, questa volta in maniera profonda: erano sostenitori Repubblicani quelli che ieri hanno condotto l’assalto, mentre erano esponenti Repubblicani quelli che accusavano in modo esplicito il Presidente (vedi Matt Romney, ex candidato alla Presidenza nel 2012 contro Obama) di «incitare alla sedizione». Ed è purtroppo triste constatare come gli assalitori fossero  rappresentanti di un “Mainstream Party”, ovvero di un Partito tradizionale della politica americana, non di gruppuscoli eversivi o anarchici come sarebbe potuto accadere in altri Paesi.

Chi si è smarcato in maniera decisiva nelle ultime ore è stato il vicepresidente in carica Mike Pence, l’uomo sul cui appoggio Trump contava per evitare la “certificazione” della vittoria di Biden. Lo ha fatto perché, da esperto politico, ormai non sopportava più l’arroganza populistico-anarcoide del suo Presidente, ma anche per cercare di salvaguardare le proprie chances di candidarsi alle elezioni del 2024. A dire il vero sono molti gli esponenti di spicco dei Repubblicani che, in modo netto o meno esplicito, stanno in queste ore prendendo le distanze, con l’eccezione del Senatore Ted Cruz, avversario di Trump alle elezioni del 2016 e da lui più volte insultato, che adesso sembra invece andare controcorrente, allineandosi alle posizioni estremistiche, forse nella speranza di ottenere l’appoggio degli oltranzisti repubblicani, che sono alla ricerca di un leader, dato ormai per scontato che dopo gli ultimi avvenimenti ogni possibilità di ricandidatura di Trump appare scemata.

Cosa succederà adesso?

In primo luogo il Congresso ha “certificato” la legittimità della vittoria di Biden, che il prossimo 20 gennaio è destinato ad entrare alla Casa Bianca. Con la sconfitta in Georgia, i Repubblicani hanno perso la maggioranza al Senato pur essendo ora le posizioni perfettamente bilanciate (50 seggi per ciascuno dei due Partiti), come da Costituzione il voto del prossimo Vice Presidente, Senatore  Kamala Harris vale doppio e quindi può assicurare ai Dem una risicatissima maggioranza, almeno per una serie di provvedimenti importanti quali la conferma dei componenti del suo Gabinetto o l’adozione di nuove  misure fiscali – sulle quali comunque si svilupperà un acceso dibattito – mentre non appare realizzabile un passaggio della riforma sanitaria per cui occorreranno 60 voti.

Corrono voci di una possibile procedura di “impeachment” anche se a questo punto non appare realizzabile, dato il breve lasso di tempo che ci separa dal 20 gennaio, giorno in cui Biden presterà giuramento quale 46esimo Presidente degli Stati Uniti. La speranza è che questi ultimi giorni possano trascorrere il più rapidamente possibile e che non si registrino più episodi di violenza che hanno comportato – fatto inaudito nella storia americana – la perdita inutile di quattro vite umane. 

In un clima ancora caratterizzato da forte tensione e in costante evoluzione, si registra poco fa la dichiarazione di un alto esponente dell’Amministrazione, che ha assicurato la volontà di Trump, nonostante le ribadite riserve sul «furto elettorale» di procedere alla transizione in modo “ordinato e pacifico”. Che sia la fine di questo momento di follia?

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