Nel sesto libro dell’Odissea, Nausicaa, la figlia del re dei Feaci Alcinoo, incontra sulla riva del mare Odisseo, naufrago, lordo di salsedine e stremato da una tempesta. Poseidone lo aveva sorpreso e gli aveva distrutto la zattera con la quale era partito alla volta di Itaca dall’Isola di Ogigia, dove era rimasto ospite-prigioniero della Ninfa Calipso per sette anni. Nausicaa non si spaventa vedendo lo straniero, anzi, lo soccorre, lo fa lavare dalle sue ancelle e lo guida in città per introdurlo fra i suoi. Quando la vede, Odisseo rimane affascinato e virtualmente le si getta ai piedi (il verbo greco γουνοῦμαι significa letteralmente, “mi getto a terra e abbraccio le tue ginocchia”)  rivolgendosi a lei con queste parole:

 «Γουνοῦμαί σε, ἄνασσα· θεός νύ τις ἦ βροτός ἐσσι;  

 εἰ μέν τις θεός ἐσσι, τοὶ οὐρανὸν εὐρὺν ἔχουσιν, 
 ’Αρτέμιδί σε ἐγώ γε, Διὸς κούρῃ μεγάλοιο, 
 εἶδός τε μέγεθός τε φυήν τ’ ἄγχιστα ἐΐσκω· 
 εἰ δέ τίς ἐσσι βροτῶν, οἳ ἐπὶ χθονὶ ναιετάουσι, 
 τρὶς μάκαρες μὲν σοί γε πατὴρ καὶ πότνια μήτηρ,   

 τρὶς μάκαρες δὲ κασίγνητοι· μάλα πού σφισι θυμὸς 
 αἰὲν ἐϋφροσύνῃσιν ἰαίνεται εἵνεκα σεῖο, 
 λευσσόντων τοιόνδε θάλος χορὸν εἰσοιχνεῦσαν. 
 κεῖνος δ’ αὖ περὶ κῆρι μακάρτατος ἔξοχον ἄλλων, 
 ὅς κέ σ’ ἐέδνοισι βρίσας οἶκόνδ’ ἀγάγηται.  

 οὐ γάρ πω τοιοῦτον ἴδον βροτὸν ὀφθαλμοῖσιν, 
 οὔτ’ ἄνδρ’ οὔτε γυναῖκα· σέβας μ’ ἔχει εἰσορόωντα. 
 Δήλῳ δή ποτε τοῖον ’Απόλλωνος παρὰ βωμῷ 
 φοίνικος νέον ἔρνος ἀνερχόμενον ἐνόησα.»

«Alle ginocchia tue, signora, mi getto e ti supplico: sei forse una dea o una creatura mortale? Perché se sei una degli dei che abitano il vasto cielo, mi sembri simile senz’altro ad Artemide, figlia del grande Zeus, per aspetto, portamento e statura; ma se invece sei una dei mortali che abitano sulla terra… tre volte beati tuo padre e la madre sovrana, tre volte felici i fratelli: senza dubbio il loro cuore si infiamma per te quando contemplano un simile fiore accostarsi alle danze. Ma senza dubbio felice oltre ogni misura e al di sopra d’ogni altro nel suo cuore colui che, carico di doni per averti, potrà condurre te come sposa nella sua casa. Mai fino ad oggi io vidi una simile creatura mortale con i miei occhi, né uomo né donna: venerazione mi coglie al vederti! Nell’isola di Delo una volta presso l’altare di Apollo vidi qualcosa di simile, un giovane virgulto di palma levarsi verso il cielo.» (Od. 6.149.sgg)

La narrazione è coinvolgente e carica di pathos. C’è però un particolare che va sottolineato: non è il poeta che espone la vicenda, ma lo stesso protagonista che parla. Questo singolare aspetto dei primi due grandi poemi della storia letteraria europea, Iliade e Odissea, è affrontato con grande cura da Aristotele nel suo breve, ma densissimo, trattato intitolato “Sull’arte Poetica”, comunemente designato con il semplice titolo La Poetica

Aristotele sostiene che l’arte è imitazione (in greco μίμησις mímesis) e che questo processo che riproduce la vita può avvenire in vari modi, in particolare due: la narrazione e l’azione. La narrazione è di fatto il racconto di cose note al poeta e comunicate “linearmente” al lettore o all’ascoltatore. Dalle storie della nonna al romanzo contemporaneo, la narrazione comunica situazioni, modi di essere, avventure, pensieri secondo una particolare tecnica espositiva, quella del racconto. L’azione è invece tipica del teatro. 

Nella Poetica, Aristotele definisce la tragedia come “imitazione di una azione seria, condotta con una linguaggio raffinato e specifico per ciascuna delle sue parti, dotata di una certa dimensione ed espressa da attori e non mediante narrazione.” Ma precisa anche che Omero, di fatto, è contemporaneamente “autore di narrazioni” ma anche “attore”, perché non si limita a raccontare, ma in certe situazioni assume la parte dei personaggi e parla come se fosse uno di loro. Insomma l’Odisseo che prega Nausicaa, nel passo citato all’inizio, è interpretato da Omero, che “parla come un personaggio” e non “racconta”. Il Poeta sarebbe, in sostanza, anche un attore.

Ora, questa distinzione, sembra di natura schiettamente accademica e apparentemente non ha a che fare con le cose ordinarie della vita, in realtà è un altro dei “cardini” del pensiero occidentale e in essa si cela, ma nemmeno tanto, un’altra delle forme di quella “percezione dialettica della realtà”, ovvero l’opposizione soggettivo – oggettivo, della quale abbiamo già parlato in un precedente intervento

La narrazione per definizione è espressione di un soggetto, anche quando il racconto si presenta come reportage o relazione tecnica. Nella narrazione abbiamo sempre un io che, seppure in diverse forme, si rivolge a un tu. La rappresentazione è invece qualche cosa che si estranea dal soggetto e si manifesta come evento al quale altri soggetti assistono. E’ vero che anche nel caso della rappresentazione abbiamo a che fare comunque con un autore che, seppure, attraverso situazioni e dialoghi, esprime una sua visione del mondo e delle cose; tuttavia la rappresentazione esige una messa in scena, una regia e una interpretazione. In tal modo la soggettività individuale e onnisciente dell’autore di una narrazione si diluisce, anzi si frantuma, in altre soggettività, che la devono tradurre in atto per poterla rendere fruibile e comunicabile. 

Il bello di queste opposizioni, tuttavia, è che nemmeno questa lettura critica dei fatti esaurisce la complessità dell’opposizione che abbiamo presentato sopra. Infatti la narrazione esige di essere compresa e interiorizzata. In tal modo acquista il valore di un’esperienza ripetibile e moltiplicabile. Ne nasce una interiorizzazione collettiva, che crea immaginario comune, intersoggettivo, nel quale può riconoscersi un’intera comunità.  

Diversamente, l’oggettivazione scenica di una pièce teatrale può assumere caratterizzazioni molto diverse e ben connotate dall’epoca e dalla cultura dei soggetti che la interpretano e la rappresentano. Insomma siamo di fronte a un gioco di specchi nel quale, come diceva Gorgia da Lentini, uno dei più famosi e abili intellettuali della Grecia Antica, chi si lascia ingannare è più saggio di chi non si lascia ingannare. 

Oggi, peraltro, ci troviamo a vivere e ad agire in un contesto di nuova e impensabile complessità. Né la narrazione, né la rappresentazione teatrale sono più in grado di creare immaginario e di moltiplicare la capacità interpretativa. Gli strumenti della comunicazione digitale e la TV generando senza limiti storie di consumo ci hanno impoveriti e indeboliti. Da un lato le serie televisive o le soap opera hanno di fatto sostituito il teatro, dall’altro la letteratura di consumo si è mangiata la narrazione letteraria complessa, per non parlare di tutta l’offerta di fiction fornita da Internet.

L’immaginario collettivo è evanescente e cambia di stagione in stagione. Il bisogno di storie e di emozioni è soddisfatto dalla narcosi mediatica. Si ha la sensazione che ormai il pubblico abbia occhi e non veda, orecchie e non senta; che insomma abbia bruciato la memoria e viva di emozioni forti, ma rapidamente esaurite. La velocità del telecomando e del mouse sembrano averci privato della capacità di sentirci soggetto collettivo e di vivere la sana dialettica della realtà.  

Assistere a una rappresentazione teatrale o leggere un testo complesso, come i grandi romanzi classici, esige allenamento, motivazione e condivisione. Questo perché l’arte, tutta l’arte non vive nella fruizione privata e radicalmente individualistica, ma nello scambio di opinioni, di rilievi critici, di impressioni. La lettura di un libro, la visione di un film, l’ascolto di una canzone o di un brano musicale implicano inevitabilmente il bisogno e il desiderio di comunicare ad altri la nostra personale esperienza estetica. Questo perché il rapporto con l’arte, come osserva Aristotele, comporta inevitabilmente lo scatenamento del pensiero e della riflessione, ed è appunto questo che dà piacere, perché tutti amano lo scoprire cose nuove e provare nuove esperienze, tutti sono sedotti dalla conoscenza e il sapere è un piacere che tutti prima o poi provano. Ma se il film è visto nell’isolamento del gruppo familiare, o il libro è letto individualmente senza poterne parlare con altri (al massimo, forse, in qualche gruppo social in internet), rischia di passare sulla coscienza e nell’immaginario delle persone come acqua sul marmo.

Nell’era in cui anche lo spettacolo è diventato intrattenimento  definitivamente casalingo e la TV si è frantumata in innumerevoli rivoli di proposte “on demand”, solo la scuola sembra in grado di mantenere viva la dimensione delle relazioni e l’educazione alla complessità, senza la quale non c’è il piacere di una poetica del sublime, ma solo la momentanea soddisfazione di un’esigenza di passatempo e distrazione.