Esistono dei luoghi dove viene fornito un ambiente protetto e igienicamente adeguato per poter consumare sostanze psicotrope, prevalentemente per via iniettiva, e con la supervisione di personale sociale e sanitario o di un pari (ossia un consumatore o ex consumatore), senza il rischio di incorrere in arresto per possesso di droga.

In Europa ce ne sono una novantina (l’ultimo è stato approvato qualche settimana fa a Glasgow) distribuiti in dieci Paesi europei; ma anche in Canada, Australia e Stati Uniti continuano a sorgerne di nuove.

Svizzera, primo esempio

Il primo nasce in Svizzera, nel 1986, per far fronte alle emergenze secondarie – ma non troppo – derivanti dall’uso soprattutto di eroina che allora era solo iniettabile.

All’epoca i casi di overdose o di morte causata dalle sostanze usate per tagliare le droghe e la dilagante problematica della diffusione dell’ HIV, hanno fatto prevalere un atteggiamento da parte delle politiche socio sanitarie svizzere orientato alla di riduzione del danno.

Le Stanze del Consumo, così si chiamano questi luoghi, cercano di attrarre i consumatori più marginali, che usano sostanze in situazioni rischiose e igienicamente non adeguate.

Fornire aghi puliti, controllare le sostanze o somministrare naloxone in caso di overdose, sono le principali prestazioni che vengono fornite. Ma il personale offre anche consulenza sociosanitaria con la possibilità di un aggancio ai servizi sociali e di cura.

Un contesto che non giudica, ma si prende cura

Il tutto in un contesto non giudicante. Ed è forse questa posizione di pensiero che sposta l’asse culturale verso una riflessione sulla gestione non punitiva ma comprensiva (che non significa giustificativa) del problema della tossicodipendenza. 

Problema che in realtà è la punta dell’iceberg, il sintomo di qualcos’altro di più profondo che riguarda l’individuo ma anche la collettività.

In un contesto accogliente ci si prende cura di una persona malata che, bussando alla porta di queste stanze, a modo suo chiede aiuto e ammette, ancora inconsciamente, di essere scivolato vertiginosamente verso il confine del “senza ritorno”

E così le stanze del consumo, inserite nel contesto urbano, mettono in evidenza che c’è un problema e non lo relegano ai margini della solitudine e dell’ipocrisia. 

Se da una parte contengono, limitano i rischi e i danni dell’assunzione di sostanze, in modo particolare, anche se non solo, per via iniettiva, il setting proposto, non essendo più ai confini ma pubblico e formale, riconosciuto, permette uno spostamento, materiale e simbolico, verso una accettazione del consumo e una sua inclusione negli interventi di salute pubblica. Infatti questi luoghi rendono visibile l’atto del consumare grazie all’intervento diretto, in presenza, di operatori nel momento dell’assunzione con la possibilità di interventi “prima e dopo”, preventivi o riparativi. 

Questo non significa giustificare o peggio ancora supportare un gesto illegale ma relazionarsi con una pratica che, a questo punto, non risulta più, seppur saputa, nell’ombra della dimensione individuale; ma è ora inclusa tra quei comportamenti umani a cui dare il proprio contributo professionale in termini di pratiche di salute, fisiche e psicologiche. 

Significa prendersene cura.                                                                 Chiediamo aiuto solo quando ci rendiamo conto di avere un problema e questo vale anche a livello collettivo. Pensare alla tossicodipendenza come una condizione di cui prendersi cura e non solo da punire, porta l’attenzione sull’essere umano, sulla persona, smettendo così di accusare o accanirsi solo contro  i fattori ambientali come la sola causa di questa “malattia” e si comincia a dialogare ancora di più per dare spazio alla sofferenza e al vero disagio che ha trovato nella tossicodipendenza una strada per farsi sentire.

«I’m strange man like your angel, I’m invisible like a monster but someday you’ll understand the meaning of my life , but someday you’ll understand the meaning of these words. I’m the speaker of your silence I’m the question now to your answer.»*

Sono alcune parole di Meaning, una canzone di Cascadeur. In essa ci si immerge se ci si lascia trasportare da un significato più profondo e meno oggettivo, più simbolico. Sembrano provenire dalla parte meno conosciuta di ciascuno di noi: quella che non comprendiamo e che non vorremmo (nel bene e nel male) ma che in realtà ci definisce e ci dà spessore. “Un giorno tu capirai”: una proiezione nel futuro, possibile solo se si accetta l’esistenza di un silenzio mortifero e una risposta apparentemente errata (come per esempio la tossicodipendenza) alla domanda fondamentale che risiede nel senso più profondo dell’esistenza e che ci riguarda tutti.  

Sono un uomo strano come il tuo angelo, sono invisibile come un mostro ma un giorno tu capirai il significato della mia vita, ma un giorno tu capirai il significato di queste parole. Io sono l’oratore del tuo silenzio, sono io la domanda ora alla tua risposta».

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