Negli ultimi trent’anni, diciamo dal varo del “Progetto Brocca” fino a qualche anno dopo la riforma scolastica del 2010, abbiamo assistito a un vivace fervore di discussioni e di confronti in tema di istruzione, soprattutto sulla delicata questione del modello culturale di fondo al quale ispirare lo spirito educativo dei nuovi licei.

La questione ha visto momenti anche di una certa conflittualità, soprattutto sulla delicata questione del valore della cultura classica e sul suo ruolo di paradigma educativo centrale nel sistema liceale italiano. Si è spesso fatto ricorso al concetto di “identità” e si sono tirati in ballo i “valori perenni” della nostra più grande tradizione culturale. In opposizione a questa prospettiva si sono fatti sentire in modo forte (e fin troppo persuasivo) i sostenitori della modernità e dei valori culturali scientifici a sostegno di un “umanesimo scientifico” che non può trovare nella tradizione classica il proprio fondamento, ma che solo nelle ricerche più avanzate del secondo Novecento può avere il suo riferimento.

In tal modo troppo spesso si sono contrapposti dimensione scientifica e dimensione umanistica, quasi fossero gli inconciliabili fondamenti di due diverse e antitetiche visioni educative, fra le quali fosse necessario scegliere per non creare un sistema scolastico fuori dalla realtà. Sul banco degli imputati è inevitabilmente finito il Liceo Classico, al quale nel 2014 è stato intentato un vero e proprio processo in due prestigiose sedi: in aprile a Roma, presso il Liceo Visconti, Pubblico Ministero Claudio Gentili e Difensore Nuccio Ordine, e in novembre a Torino, presso il Teatro Carignano: all’accusa l’economista Andrea Ichino, alla difesa il compianto Umberto Eco.  

Non intendo qui riassumere le due azioni processuali, il lettore può trovare sulla rete tutti gli elementi necessari. Osservo solo che, da pochi anni a questa parte, il calore del confronto sembra in certa misura essersi raffreddato, forse anche per il fatto che alcuni prestigiosi rappresentanti della cultura classica, come Ivano Dionigi, Luciano Canfora, e i classicisti del movimento “Classici Contro” guidati da Alberto CamerottoFilippomaria Pontani, senza smanie profetiche, né apocalittiche visioni di sciagura, ma con grande semplicità, concretezza  e passione, hanno offerto letture della formazione culturale necessaria ad affrontare il futuro, secondo le quali la cultura classica non è la nostalgica rivisitazione di irripetibili glorie, ma l’acquisizione di chiavi logiche senza le quali non è possibile comprendere la complessità del presente.

In questa sede vorrei proporre, con alcuni interventi in sequenza, alcuni aspetti della formazione classica che costituiscono l’intelaiatura stessa del nostro modo di accostarci alla realtà, e sono cardini viventi della cultura occidentale.

Platone e Aristotele ne “La scuola di Atene”

Inizierei con uno dei fondamenti del pensiero classico greco, ovvero la “percezione dialettica della realtà”, in parole povere la capacità di cogliere in ogni situazione i pro e i contro di una scelta, ponendosi da due punti di vita opposti. Esemplare in questo senso e di grande aiuto per comprendere quanto dico, è il grande affresco di Raffaello in Vaticano che rappresenta “La scuola di Atene”, nella quale al centro stanno i due più grandi filosofi del Mondo Antico: Platone con il dito rivolto verso il cielo e Aristotele, con la mano aperta verso il basso a indicare la terra. Ebbene la dialettica fra spinta ideale e concretezza di analisi è uno dei motori più potenti della cultura occidentale, senza il quale non avremmo i capolavori dell’arte che tutti amiamo, dalla letteratura alla musica, dalle arti pittoriche e plastiche al teatro. Il rapporto con l’arte infatti è uno dei campi nei quali il confronto fra il pensiero platonico e quello aristotelico si sono scontrati con maggior durezza. Per Platone l’arte è imitazione della realtà, e quindi si allontana di due gradi di verità dall’ideale che alla realtà dà forma e senso. Per Aristotele invece l’arte, come imitazione della vita rappresenta un’occasione fondamentale per comprendere la verità, perché supera il dato ordinario e semplice della realtà, ma rappresenta ciò che appartiene all’universo del possibile secondo in vincoli della plausibilità e della condivisione comprensibile. E dunque per Platone Renzo e Lucia non esistono, e, in quanto finzione, possono indurre in errore chi li osserva e ammira. Il vero della semplicità di Renzo e della purezza di Lucia non si coglie in personaggi che imitano le persone, ma nelle idee che a quei valori danno vita nella realtà. Non, quindi, il poeta comprende il vero, ma solo il filosofo che sa conoscere profondamente e concepire le idee di “semplicità” e “purezza”. Per Aristotele, invece, Lucia non è una Lucia reale, ma in quanto vera, “potrebbe esserlo” e in quel modo di “essere Lucia” o “essere Renzo” tutti i giovani che si amano possono riconoscersi e comprendere se stessi, meglio che da un trattato di etica.

E dunque ai critici e ai teorici che sono venuti nei secoli successivi, si è posto il problema se dobbiamo pensare a un arte come distrazione e allontanamento dal vero, ancorché legittima perché frutto di una naturale tendenza alla creatività, o a un’arte che superando la concretezza e la determinatezza del “qui ed ora” ci porta a un livello superiore di comprensione della dimensione umana. Non c’è soluzione a questo confronto serrato e insanabile. Ma è proprio questa vitale, contraddittoria e lacerante dialettica che anima il pensiero e la cultura occidentali e li rende in grado di trasformarsi, di evolversi e di cogliere il nucleo di autenticità dell’opera d’arte, oltre ogni forma di confezione utilitaristica, semplicemente finalizzata alla diffusione e  al consumo nell’impresa del divertimento. 

Vivere dal di dentro la tensione dialettica che caratterizza i grandi valori dell’arte è un esercizio di strepitosa realtà e ci aiuta a non cadere come ingenui fanciulli nelle seduzioni dei venditori di fumo. Ci aiuta a capire la complessità di Leopardi (poeta o filosofo?) a penetrare nel profondo la poetica di Manzoni, a comprendere le provocazioni di D’Annunzio e l’inquietudine di Pascoli, le sfide di Picasso e di Dalì, il dolore di Ungaretti e la concretezza di Montale, la semplicità di Saba e le sperimentazioni di Zanzotto, la finezza lineare di De Sica e i dolori moderni e difficili di Pasolini. Nulla di ciò che abbiamo vissuto nell’arte degli ultimi due secoli prescinde dalle sorgenti inesauribili del pensiero classico. La nostra modernità non solo ha un cuore antico, ma è innervata da una logica che nella dialettica con l’antico e nella affermazione della propria alterità, sancisce una incredibile necessità di continuo confronto e di ineludibile consapevolezza.  Non diciamo che l’antico è dentro di noi come un residuo; pensiamo, piuttosto, che il pensiero classico è l’architrave della nostra maturità storica e della nostra libertà interiore.

©️ RIPRODUZIONE RISERVATA