“L’insegnamento è il più frustrante dei mestieri moderni” afferma Alessandro Barbero in una recente intervista su Oggiscuola: una costatazione autorevole la sua, da storico, docente universitario e affermato divulgatore televisivo.

Alessandro Barbero

Un ragionamento articolato, che possiamo riassumere più o meno così: l’attacco alla categoria degli insegnati è partito da lontano, ben 25 anni fa, con la svolta a destra della politica italiana e una conseguente e profonda incomprensione e “antipatia […] nei confronti di un mondo, quello degli insegnanti, tradizionalmente considerato di sinistra.” Coerentemente, Barbero prende atto dell’ideologia unica del profitto, l’esaltazione dell’imprenditoria come sale della terra che ha prodotto, nel mondo scolastico l’introduzione dell’alternanza scuola-lavoro che è corollario a un principio generale: “passare l’intera infanzia e adolescenza a scuola, senza essere obbligati a lavorare, non è più un diritto né un ideale”; “La scuola non deve produrre teste pensanti, ma esecutori, tecnici: è solo in questi termini che la classe dirigente riesce a concepirla”.

La questione che il professore pone parte dalla constatazione che la classe docente è spesso riconosciuta come parassitaria, privilegiata, inutile. Specie durante questa pandemia, lo Smart Working è stato visto da molti commentatori come l’ennesimo regalo a una categoria di indolenti, abile a sfuggire al proprio dovere in forza di uno stipendio garantito.

A differenza di quanto afferma il professor Barbero, però, quello della demonizzazione degli insegnanti è un percorso che parte da lontano e che non si limita al solo cambio di colore dei governi (basta confrontare la legge 133/2008 a firma Gelmini la legge 107/2015, “La buona scuola” del Governo Renzi): si tratta, a ben guardare, di una questione ben più ampia.

Un’immagine dai social per esemplificare lo spirito fazioso dei nostri tempi. Quando il PD ha mai proposto un simile programma? Da notare anche la qualità dell’ortografia.

Se qualcuno si azzarda a proporre politiche di riequilibrio della ricchezza si alzano immediate le picche contro fantomatici ‘comunisti’; l’indignazione esplode con altrettanta prontezza appena si mette in mostra uno stipendio più alto della media: ergo, viviamo una società che schiuma rabbia e che fa dell’invidia la sua cifra, in cui si odia la miseria tanto quanto chi se ne libera ma non riesce a nasconderlo abbastanza bene. Questa brama di appiattimento (tutto immaginario: il 20% più ricco degli italiani detiene quasi il 70% della ricchezza nazionale) è avvenuto anche culturalmente: il principio di uguaglianza si è imposto al ribasso e ogni tentativo di ragionamento fondato sulla cultura o sulla scienza viene tacciato come astratto e complottista e superato con l’inattaccabile principio del “me l’ha detto mio cuggino” o del “mi è capitato una volta che”.

L’autorevolezza della conoscenza è stata spazzata via dall’illusione che, essendo tutte le informazioni accessibili grazie alla rete, l’essere esseri umani sia requisito sufficiente per esprimere un parere fondato e circostanziato su qualsiasi materia. Nel dubbio, poi, si valuta la bontà di un’idea per la forza dialettica di chi la espone: nei dibattiti la ragione è di chi si destreggia meglio più che nel merito e siccome la qualità degli oratori declina, dilagano i monologhi senza contraddittorio. Sicché, non si vede a cosa serva un docente: non possiede saperi inaccessibili e della vita vera ne sa tanto quanto gli altri e forse meno, visto che non è avvezzo a combattere con il pugnale fra i denti nella battaglia per il pane quotidiano. Al massimo, può tornar buono per tenere occupati “gli stronzetti viziati ed egoisti che avete figliato per rimpiazzarvi” (cit. “Trainspotting”) che ciondolano per casa e che non vogliamo tra i piedi perché abbiamo da vivere la nostra vita e portare a casa il pane. Ecco perché, ne parlavamo già a luglio dell’anno scorso: il problema sui giornali non è la qualità ma la quantità dei docenti: la macchina deve funzionare; come, non importa.

Esempio di notizia in cui il focus non è il contenuto ma l’umiliazione dell’altro.

Il secondo punto è la constatazione che la scuola sta inesorabilmente compiendo il destino scritto da Confindustria, come abbiamo già visto a ottobre: una scuola in cui “è necessario puntare su profili specifici per il settore, come i ricercatori industriali, a cui si dovrà destinare il 30% delle risorse per i dottorati universitari; […] i giovani saranno misurati su obiettivi”. Una scuola in cui si deve insegnare per competenze, misurabili e rilevabili oggettivamente; la costruzione di un pensiero critico o la consapevolezza dei doveri civici non sono spendibili né misurabili e, quindi, inutili perché inservibili sul mercato. La capacità di immaginare un mondo diverso non serve e, anzi, è progressivamente vietata: già in Gran Bretagna “viene imposto il silenzio su autori e testi che propongono alternative al Capitalismo”.

Questi sono i limiti in cui si muove la scuola di oggi: e se Barbero invita i docenti “a combattere apertamente tutto ciò che in cuor loro riconoscono come offensivo, inutile, frustrante, senza avere il coraggio di dirlo” e a “non compilare le scartoffie superflue, non andare alle riunioni che fanno perdere tempo, togliere il saluto a chi parla di meritocrazia” non tiene tuttavia conto che le prossime generazioni di docenti saranno il frutto di questa scuola dell’obbedienza e della produttività, priva di afflato ideale e ideologico perché un futuro diverso non deve più essere non solo realizzabile ma nemmeno pensabile.

Ciò che conta è che i nostri figli capiscano che la vita è una giungla e insegnare loro competenze tecniche da usare come asce bipenni per farsi spazio nel mercato. La priorità è produrre e vendere qualcosa a qualcuno: per fare questo non servono docenti, bastano degli istruttori.

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