La ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina annunciava una settimana fa la scelta di utilizzare studenti universitari non ancora laureati per le supplenze nelle scuole materne e affermava: «Penso che questo Paese debba assolutamente dare la possibilità ai giovani di lavorare. Se vanno all’estero ci lamentiamo, se restano a casa ci lamentiamo, e poi questi giovani lavoravano già». Da molte parti sono inevitabilmente piovute delle critiche, legate soprattutto al timore di un drastico scemare della qualità dell’insegnamento.

Nel frattempo, il processo di individuazione ordinario del personale necessario sta prendendo forma: archiviata la SISS (scuola di specializzazione all’insegnamento secondario) attiva fino al 2009, tutta teorica e, di fatto, prevalentemente finalizzata a mantenere un carrozzone di “cattedratici senza cattedra”, superati ora i TFA, si ritorna alla logica selettiva dei concorsi. Secondo le dichiarazioni della ministra durante il “Villaggio Rousseau” (evento organizzato dal Ms5), le assunzioni avverranno a fine agosto pescando dalle graduatorie ad esaurimento, mentre le nuove assunzioni attraverso concorsi a fine settembre, ovvero 15 giorni dopo l’inizio della scuola.

Dichiarazioni che dovrebbero tranquillizzare e invece non tranquillizzano granché perché, come evidenziato qualche tempo fa dalle colonne di questa testata con Beatrice Pellegrini, le graduatorie ad esaurimento sono già spesso esaurite e i tempi per i concorsi possono essere molto lunghi, anche due anni, salvo errori o ricorsi. Le assunzioni saranno retrodatate al 1° settembre, dice la ministra rassicurando i nuovi docenti, ma non certo i genitori degli alunni. Ed ecco come ancora una volta la direzione di questo Ministero si sta dimostrando inadeguata e lo diciamo non perché “giovane e donna“, come da lei dichiarato, ma piuttosto constatando lo stato di assoluta incertezza che attanaglia il mondo della scuola a meno di 50 giorni dall’inizio del nuovo anno scolastico e il recentissimo pasticcio del concorso Dirigenti Scolastici del 2018; non dimentichiamo però la cruciale situazione degli spazi scolastici – tale e quale alla situazione pre crisi – e che la ministra chissà come immagina così: «… scuole nuove e colorate. Fare attività nel pomeriggio concordate con famiglie, personale scolastico, con Terzo settore con tutti coloro che credono che la scuola sia il luogo di democrazia per eccellenza del Paese»; magari con i soldi del Recovery Fund, che non vedremo prima del 2021. Smarrito, è evidente, ogni contatto con la realtà.

Tuttavia, oltre che la corsa per coprire le cattedre scoperte e le aule per contenerle, superando l’eterna subalternità all’emergenza, bisognerebbe cominciare ad interrogarsi sulla qualità dei docenti, sull’appetibilità della professione, dei tempi dello svolgimento del ruolo didattico ed educativo. La questione non è tanto – o solo – la certificazione del titolo, ma la nostra convinzione che la capacità di insegnare, di divulgare, di coinvolgere e accendere interesse sia innata e, comunque, che difficilmente possa essere insegnata: perché – e ciascuno di noi può con la memoria tornare alla propria esperienza di studente – il carisma di certi professionisti, l’entusiasmo e l’autorevolezza sono un dono che, al massimo, si può affinare. Qualità che può essere valorizzata solo eliminando delle evidenti storture.

85.000 cattedre vuote da Firenze in su: perché al Nord nessuno vuol fare l’insegnante? Nel 2015 Francesca Borgonovi, ricercatrice Ocse, affermava che «se l’attrattiva in Italia è così bassa è a causa del fatto che gli insegnanti sono pagati troppo poco rispetto ad altre professioni e che non hanno possibilità di carriera». Stipendi bassi e fissi che in molte regioni, dove il costo della vita è minore, sono però ambiti per mancanza di alternative: specie, insomma, per le donne e gli abitanti del sud Italia. Una “combo” micidiale che concorre a delineare questo quadro: una percezione della professione come femminile (l’81,7% dei docenti nel 2017 è donna, con punte del 99,3% nella scuola dell’infanzia) e come valvola di sfogo per aree economicamente depresse (nel 2016, l’80% dei nuovi docenti era di origine meridionale, come segnalava Gian Antonio Stella). Di fatto, i nostri migliori studenti raramente vogliono fare gli insegnanti.

È quindi sì, è necessario far ripartire la scuola a settembre, ma lo è pure ragionare sulla professione del docente. Come? Alcuni spunti possibili: nuovi spazi scolastici (d’altronde, se ce li garantisce la ministra…) per una scuola che stabilisca un rapporto più ampio e profondo coi docenti ma anche con spazi di relazione orizzontale non vigilata per i ragazzi, ovvero una scuola sul modello dei campus universitari in cui i ragazzi studino e vivano liberamente, in ogni senso; meccanismi che garantiscano un riequilibrio di genere nel corpo docente (una sorta di “quota blu”) e, almeno nella fase iniziale, che privilegino i docenti espressi dal territorio anche con stipendi adeguati al ruolo e al tenore di vita della propria regione di servizio. Scelte che rispondono alla istanze della realtà e che tuttavia cozzano con l’idealità dell’impianto attuale.

Questo solo per cominciare a ragionare sulla struttura: sarebbe poi necessario interrogarsi su che tipo di cittadino la scuola dovrebbe formare, con quali idealità, con che concezione del mondo, con quale libertà di insegnamento. Ma l’attenzione ora è tutta focalizzata sui fondamentali banchi con le rotelle, quasi che i nostri alunni di ogni età avessero necessità di un girello: ci sarà mai un giorno in cui potremmo finalmente dire «E quindi uscimmo a riveder le stelle»?