La Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, che viene celebrata il 25 novembre, richiede a ciascuno di noi di fermarsi a riflettere su alcune dinamiche, anche psicologiche, che stanno alla base delle relazioni cosiddette disfunzionali.

Permette inoltre di domandarci quale sia il valore di essere donna oggi e come la percezione di noi stessi incida sulle relazioni. Questo perché è proprio la percezione che abbiamo di noi stessi a determinare la base della nostra identità personale e, molto spesso, essa è il risultato della percezione che gli altri hanno di noi.  

Fin dalla primissima infanzia, il corpo rappresenta il tramite attraverso il quale l’Io si costruisce, mediato dalle sensazioni fisiche e dalla modulazione dell’esperienza offerta dalla relazione con le figure genitoriali. Le prime esperienze avvengono proprio attraverso lo sguardo materno e, fin da piccoli, impariamo a distinguere ciò che è buono da ciò che è cattivo, leggendo il primo come “essere degni d’amore”.

In adolescenza il senso del sé è profondamente radicato nel corpo: i cambiamenti intervengono sull’immagine del sé costruita durante l’infanzia e fanno del corpo il mezzo privilegiato nel rapporto con gli altri. Al giovane adolescente è infatti richiesto di separarsi dai genitori e di far fronte alle modificazioni corporee, che alle volte tuonano in vergogna, ma soprattutto di rinunciare all’onnipotenza del corpo infantile a vantaggio di un corpo sessuato, che però può esporre a vissuti di sofferenza. In questo periodo l’immagine di sé viene costruita e decostruita, in un processo caratterizzato continuamente da emozioni intense e da un forte coinvolgimento sociale. È pertanto in continuo cambiamento.

I mutamenti del corpo hanno una risonanza psicologica, perché inevitabilmente vi si attribuisce significato. Un significato che però non è uguale per tutti e che può assumere sia valenza positiva che negativa. Esso infatti può dipendere da fattori interni, come la storia personale e le competenze acquisite, o da fattori esterni, come le risposte da parte dell’ambiente familiare, sociale e culturale. Ecco allora come, ancora una volta, lo sguardo esterno può diventare fondamentale nella costruzione della nostra identità.

foto di Kat Jayne, Pexels

Fin dall’infanzia, soprattutto alle giovani donne, vengono fatti molto più spesso complimenti sull’aspetto fisico piuttosto che su altre caratteristiche personali. Questo, in alcuni casi, può diventare problematico, in quanto può rafforzare l’idea che l’aspetto sia la cosa che conta di più e che si piace agli altri soprattutto per come si appare. Inoltre alcuni messaggi possono diventare deleteri ancora di più per un adolescente, che non ha ancora un’identità definita.

L’esigenza di presentarsi “perfetti” al mondo può essere accompagnata dall’impressione di non essere abbastanza e dalla delusione che si prova guardandosi allo specchio. Umberto Galimberti ci ricorda che «a nessuno è concessa l’immagine fedele del proprio corpo […]. Anche con lo specchio non raggiungo lo scopo, perché l’immagine riflessa non è sovrapponibile ma simmetrica; la destra, cioè, diventa la sinistra, e siccome le due parti non sono perfettamente identiche, l’espressione che vedo riflessa non è la mia espressione».

Ecco perché da alcuni anni mi occupo di analizzare quale relazione i bambini abbiano, fin dalla scuola primaria, con il proprio corpo. Queste esperienze mi stanno infatti permettendo di riscontrare frequenti insoddisfazioni, malesseri e occasioni di comunicazioni non funzionali. Ma soprattutto come, a partire dalla non accettazione di sé stessi, possano crescere le ricerche incondizionate di sguardi che approvano.

Perché credo che solo a partire dall’accettazione di sé stessi si possano instaurare relazioni autentiche e sane; che solo accogliendo sé stessi si possa sentire la possibilità di esperimersi liberamente, aprendosi eventualmente al cambiamento; che solo a partire da una buona autostima si possano costruire relazioni appaganti e con meno ansie, piuttosto che alimentate da emozioni come gelosie e paure.

È per tutto questo che penso che per combattere la violenza sulle donne serva primariamente prendersi cura, a livello psicologico, sociale e culturale, della persona, durante la crescita. Facendo prevenzione fin dalla scuola primaria.

@Riproduzione Riservata