All’inizio della sua opera, alla quale si dà abitualmente il titolo di Guerra del Peloponneso, ovvero il racconto dell’atroce, fratricida conflitto che oppose Ateniesi e Spartani nella seconda metà del V secolo a. C., Tucidide si sofferma brevemente sul suo metodo di lavoro. Spiega come ha riassunto i discorsi che si sono tenuti nei diversi momenti critici della vita politica e come ha ricostruito i fatti accaduti. Soprattutto sottolinea il suo impegno nel liberare il racconto storico da tutto ciò che è favoloso e attraente, e conclude con una formula che è diventata una delle espressioni cardine, non solo della storiografia antica, ma della ricerca storica di tutti i tempi, il principio stesso, la vera e propria matrice costitutiva del fare storia:

Καὶ ἐς μὲν ἀκρόασιν ἴσως τὸ μὴ μυθῶδες αὐτῶν ἀτερπέστερον ϕανεῖται· ὅσοι δὲ βουλήσονται τῶν τε γενομένων τὸ σαϕὲς σκοπεῖν καὶ τῶν μελλόντων ποτὲ αὖθις κατὰ τὸ ἀνθρώπινον τοιούτων καὶ παραπλησίων ἔσεσθαι, ὠϕέλιμα κρίνειν αὐτὰ ἀρκούντως ἕξει. Κτῆμά τε ἐς αἰεὶ μᾶλλον ἢ ἀγώνισμα ἐς τὸ παρα­χρῆμα ἀκούειν ξύγκειται. (1.22)

E all’ascolto, forse, la mancanza dell’elemento favoloso in quelle narrazioni sembrerà piuttosto spiacevole; ma quanti vorranno guardare alla chiarezza degli eventi passati e di quelli che potranno similmente e analogamente verificarsi ancora in futuro secondo il fattore umano, ebbene mi basta che costoro le giudichino utili. Si tratta di un bene per sempre, più che di un esercizio di stile per una conferenza d’occasione.

Ebbene questo testo, breve e incisivo in greco, è in realtà assai complesso e la sua resa adeguata è sempre un banco di prova per i traduttori, non solo per il valore delle singole parole, ma anche per la sintassi e per i concetti che derivano dalla concatenazione dei sintagmi. Il punto nevralgico, per la nostra riflessione, è rappresentato dai tre elementi in grassetto, che non sono stati tradotti alla lettera, ma interpretati in modo da rendere comprensibile il testo secondo i passaggi logico-semantici qui di seguito riportati:

  • τὸ μὴ μυθῶδες: il non favoloso -> ciò che non è favoloso -> la mancanza dell’e­le­mento favoloso
  • τὸ σαϕὲς: il chiaro -> ciò che è chiaro -> la chiarezza
  • κατὰ τὸ ἀνθρώπινον: secondo l’umano -> secondo ciò che è umano -> secondo il fattore umano.

In tutti e tre i casi ci troviamo di fronte a un aggettivo neutro sostantivato. Questo costrutto è possibile in greco perché è presente in questa lingua l’articolo. Un piccolo elemento grammaticale di potenza straordinaria. È infatti grazie all’articolo se in greco si realizza una possibilità che in latino non sarebbe concepibile: in questo caso osserviamo come le potenzialità della lingua siano fattori condizionanti e creino nuovi spazi d’espressione.

Grazie all’articolo, infatti, nel greco antico può diventare concetto unitario qualsiasi elemento della frase, anche un lungo sintagma. La forza concettuale del neutro è già di per sé marcata anche senza l’articolo. Questo è noto anche a tutti coloro che hanno una qualche pratica di latino. Un’espressione come Pulchrum est pro amicis mori “È bello morire per gli amici” anche in italiano è possibile, benché l’italiano non abbia il neutro; quel maschile non è certamente utilizzato in riferimenti a un soggetto maschile, ma a un’idea astratta.

In greco però la presenza dell’articolo ha consentito il sorgere di un concetto nuovo. La sequenza articolo+aggettivo neutro crea il valore astratto espresso da quell’aggettivo. Per esempio: καλόν bello -> τὸ καλόν il bello -> ciò che è bello -> la Bellezza come “Idea del Bello”. In latino, invece, questo concetto si può esprimere solo nella forma complessa id quod pulchrum est, appunto “ciò che è bello” e nulla di più.

Per cogliere la differenza fra le due modalità espressive, possiamo anche fare un confronto diretto, ricorrendo a qualche passaggio della letteratura latina nel quale troviamo la traduzione di un testo greco. Possiamo procedere in tal senso grazie a un notissimo trattato ciceroniano le Tusculanae Disputationes ovvero “Le discussioni di Tuscolo”. Nel primo libro (§53) troviamo la traduzione di un noto passo del Fedro di Platone (245d)

Τὸ γὰρ ἀεικίνητον ἀθάνατον· τὸ δ’ ἄλλο κινοῦν καὶ ὑπ’ ἄλλου κινούμενον, παῦ­λαν ἔχον κινήσεως, παῦλαν ἔχει ζωῆς. Μόνον δὴ τὸ αὑτὸ κινοῦν, ἅτε οὐκ ἀπολεῖπον ἑαυτό, οὔποτε λήγει κινούμενον, ἀλλὰ καὶ τοῖς ἄλλοις ὅσα κινεῖται, τοῦτο πηγὴ καὶ ἀρχὴ κινήσεως. 

Quod semper movetur, aeternum est; quod autem motum adfert alicui quodque ipsum agitatur aliunde, quando finem habet motus, vivendi finem habeat necesse est. Solum igitur, quod se ipsum movet, quia numquam deseritur a se, numquam ne moveri quidem desinit; quin etiam ceteris quae moventur hic fons, hoc principium est movendi.

Infatti ciò che è sempre in movimento è immortale (lat. eterno). Ciò che muove un’altra cosa e ciò che è mosso da altri, quando subisca cessazione del movimento cessa di vivere. Solo ciò che si muove da solo, in quanto non viene mai meno a se stesso, non cessa mai di muoversi; anzi, anche per tutte le altre cose che si muovono è fonte e principio del movimento.

Possiamo comparare le strutture punto per punto, alla lettera:

Qui di seguito riprendo i punti chiave, inserendo tra parentesi uncinate le parole implicite, necessarie alla sintassi, ma assorbite dal pronome relativo nell’ordinaria prassi espressiva. Il pronome determinativo id è il soggetto della principale della quale è subordinata la proposizione introdotta dal relativo

  1. Τὸ ἀεικίνητον -> <id> quod semper movetur
  2. τὸ δ’ ἄλλο κινοῦν -> <id> quod autem motum adfert alicui
  3. καὶ ὑπ’ ἄλλου κινούμενον -> <idque> quod ipsum agitatur aliunde
  4. τὸ αὑτὸ κινοῦν -> <id>quod se ipsum movet,

Come si osserva chiaramente dalla comparazione, il greco utilizza espressioni semplici del tipo “articolo+aggettivo” (1) o “articolo+participio” (2, 3, 4) là dove il latino deve invece ricorrere a una struttura sintatticamente complessa. In tal modo il greco crea un concetto astratto flessibile e utilizza­bile con estrema facilità. La prosa di Aristotele ricorre in continuazione a questo meccanismo per generare concetti nuovi o rendere concettualmente definiti assetti relazionali, situazioni, idee complesse, etc. come in questo celeberrimo passo della Politica (1253a):

Ὁ δὲ λόγος ἐπὶ τῷ δηλοῦν ἐστι τὸ συμϕέρον καὶ τὸ βλαβερόν, ὥστε καὶ τὸ δίκαιον καὶ τὸ ἄδικον· τοῦτο γὰρ πρὸς τὰ ἄλλα ζῷα τοῖς ἀνθρώποις ἴδιον, τὸ μόνον ἀγαθοῦ καὶ κακοῦ καὶ δικαίου καὶ ἀδίκου καὶ τῶν ἄλλων αἴσθησιν  ἔχειν·

Alla lettera:

La parola è per l’esprimere il conveniente e il dannoso, di conseguenza anche il giusto e l’ingiusto; questo infatti rispetto agli altri animali è proprio dell’uomo, l’avere percezione egli solo del buono e del cattivo, del giusto e dell’ingiusto e di tutte le altre cose.

Quindi

La parola è funzionale ad esprimere ciò che conviene e ciò che è dannoso, quindi anche ciò che è giusto e ciò che è ingiusto. Questa caratteristica distingue specificamente gli uomini dagli altri animali: cioè il fatto di avere percezione del bene e del male, della giustizia e dell’ingiustizia e di tutti gli altri valori.

Come si può vedere anche l’infinito può essere sostantivato e trasformato in una proposizione, in maniera molto dinamica e fluida molto simile all’italiano. Si noti come nell’ultima frase del breve testo l’articolo che sostantiva, τὸ “il” e l’infinito sostantivato ἔχειν echein “avere” vengano a trovarsi agli stremi della frase, la cui forza concettuale è quindi compressa fra i due pilastri della struttura linguistica, semplice ma concentrata semanticamente con una densità di rara efficacia. Questa, sia detto en passant, è la “tonalità” stilistica e la concentrazione semantica abituale nei testi di Aristotele. Anzi, qui siamo di fronte a un passo di cristallina chiarezza.

Ma non basta. Possono diventare un concetto unitario persino un avverbio o un comple­mento, come in questo breve passo del Critone di Platone (49e)

Σω. …εἰ δ’ ἐμμένεις τοῖς πρόσθε, τὸ μετὰ τοῦτο ἄκουε.

Κρ. ’Αλλ’ ἐμμένω τε καὶ συνδοκεῖ μοι· ἀλλὰ λέγε. 

Σω. Λέγω δὴ αὖ τὸ μετὰ τοῦτο, μᾶλλον δ’ ἐρωτῶ· 

Socrate: … se convieni con quanto abbiamo detto precedentemente, ascolta ciò che viene di seguito

Critone: Ma certo, concordo e lo penso anch’io; parla dunque.

Socrate: Dico dunque il seguito, meglio: te lo chiedo.

τοῖς πρόσθε è il dativo di τὰ πρόσθε = “le cose precedentemente” -> “quanto detto prima”

τὸ μετὰ τοῦτο= “il dopo questo” -> “ciò che viene di seguito”

L’articolo sostantiva nel primo caso un avverbio e nell’altro un complemento di tempo espresso con preposizione.  

Orbene, questa peculiarità della lingua[1] ha avuto esiti dirompenti nel pensiero occidentale. È stato grazie a questa straordinaria facoltà dell’articolo che sono nati concetti come “L’Essere”, “Il Divenire” e tutte le altre formalizzazioni astratte che la filosofia in venti secoli di sviluppo ha prodotto. Tutto parte da quella semplice paroletta τό tó, neutro singolare dell’articolo determinativo. Tucidide senza di esso non avrebbe mai potuto esprimere un concetto che sarebbe entrato nell’oriz­zonte di senso, non solo della storia, ma della cultura occidentale, “il fattore umano” o meglio semplicemente “l’umano”. Senza quell’articolo non ci sarebbe quel concetto.

A questo principio, (forse inconsapevolmente, ma di certo attraverso la tradizione culturale greca) si rifarà il commediografo latino Terenzio quando farà dire a uno dei suoi personaggi

homo sum, humani nihil a me alienum puto[2]

Uomo, sono; nulla di umano considero estraneo a me

Questo stesso concetto, utilizzato in maniera formale e consapevolmente innovatrice, come elemento che distingue la persona dalle altre creature e persino dall’intelligenza artificiale, ritorna negli scritti di un grande pensatore contemporaneo, Edgar Morin, il quale all’inizio di un suo recente lavoro così si esprime:

“Uomo” è una parola nello stesso tempo pertinente e insufficiente. Perché è insufficiente? Innanzitutto perché designa l’individuo escludendo la società… E poi perché ha una connotazione maschile, benché la parola sia neutra, e dunque in certo senso occulta il femminile.

È per questo che preferisco riferirmi all’ “umano”, piuttosto che all’ “uomo”.[3]

Non possiamo certo affermare che vi sia una linea diretta fra Tucidide e Morin, passando per Terenzio. La questione è un’altra: il concetto di τὸ ἀνθρώπινον “l’umano” è stato “immesso” nella circolazione del pensiero occidentale da Tucidide. Da allora non solo questo valore, ma lo stesso metodo di astrazione dal quale esso è nato, non ha cessato di essere generativo; consapevolmente o inconsapevolmente non importa. Le correnti del sapere scorrono a volte in superficie altre in forme sotterranee non sempre riconoscibili. Di certo è che quella fulminea definizione, τὸ ἀνθρώπινον “l’umano”, come una freccia, ha passato i fori delle scuri di venticinque secoli ed è arrivata a bersaglio fino a noi.  

Nulla è più connesso al presente di un autentico messaggio del pensiero antico.


[1] Tutte queste riflessioni si fondano su una ricostruzione rigorosa di questi aspetti condotta da Bruno Snell in un celebre saggio: La formazione dei concetti scientifici in La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Einaudi, Torino, 1963 (Splendido libro già citato in uno dei miei interventi precedenti).

[2] Heautontimorûmenos, I,1,25

[3] Edgar Morin, 7 Lezioni sul pensiero globale, Raffaello Cortina Editore, Milano 2016, p. 1 (grassetto mio)