Nato e cresciuto a Milano da genitori calabresi il 16 maggio 1970, Antonio Giuseppe Malafarina oggi è giornalista, blogger della rubrica “InVisibili” del “Corriere della sera.it”, poeta ed esperto di tematiche sulla disabilità. Nella sua vita c’è un prima e un dopo: «ho studiato in un istituto tecnico per meccanica di precisione prima del tuffo. Poi ho continuato gli studi all’Istituto professionale Paolo Frisi di Milano, molto distante da casa in quanto scuola aperta a tutti ma all’avanguardia nell’accoglienza delle persone con disabilità».

Antonio, ho qualche esitazione a chiederti del tuffo…
«Non preoccuparti! Sono domande che in un’intervista si devono fare. Al lettore interessa conoscere una persona. Se sei in sedia a rotelle è normale che ti chiedano: perché?»

Allora raccontami la tua storia.
Era la mattina del 13 settembre 1988, io avevo compiuto 18 anni a maggio e quel giorno avevo appena concluso l’esame di guida per conseguire la patente; ero stato alla posta dove avevo fatto i vaglia per richiedere la patente. Ero molto felice. Era l’ultimo giorno di vacanza al mare in Calabria, a Bovalino Marina, terra d’origine della mia famiglia. Sono tornato a casa, ho salutato i miei e li ho avvertiti che sarei andato in spiaggia a fare l’ultimo bagno prima di ritornare a Milano.

Non sono andato nella solita spiaggia davanti a casa, ma dall’altra parte del paese dove c’erano i miei amici e dove ero solito tuffarmi. Mi sono tuffato in un luogo che conoscevo benissimo, un tuffo normale, ma ho picchiato la testa sul fondale perché mi sono immerso in acqua troppo presto. La testa si è curvata in avanti ed ho sentito come il rumore improvviso, molto forte, di una molla lasciata andare. Mi si è stirata la colonna vertebrale con il midollo spinale all’interno. Da quel momento sono rimasto paralizzato in acqua.

Io ero fermo in acqua, non respiravo, i miei muscoli erano completamente bloccati. Ero rivolto con la testa verso il basso, a pochi metri dalla riva. In quel momento mi sono rivolto a Dio e gli detto: “Se vuoi salvarmi fallo! Questo sarebbe il momento che tu ti facessi vivo. Non farlo per me, ma per le persone che mi amano”.

Gli amici che erano intorno a me pensavano che scherzassi, ma uno che era più vicino, un mio cugino carissimo, più piccolo di me, si è reso conto che era successo qualcosa. Quasi per caso, perché c’era un filino di sangue causato da un piccolo graffio alla testa. Mi ha tirato fuori senza rendersi conto di cosa mi stesse succedendo e non sapeva bene cosa fare. Subito è intervenuto un medico che si trovava lì casualmente e che mi ha aiutato a respirare muovendomi ritmicamente le braccia e facendo entrare l’aria nei polmoni. Io devo la vita a quel medico, di cui poi ho perso le tracce, perché senza ossigeno sicuramente sarei morto. Sono stati chiamati i soccorsi: mio cugino è corso a prendere il motorino per andare a cercare i miei e ha trovato mio padre che nel frattempo è arrivato. Intanto i minuti passavano. Poi è arrivata una vecchia ambulanza, completamente sguarnita per potermi assistere in maniera adeguata (stiamo parlando di più di trent’anni fa, ma già all’epoca qualcosa di più si sarebbe potuto fare).

Gli infermieri mi hanno preso di peso, incuranti del danno midollare che avevo subito, mi hanno caricato su e, dopo avermi infilato un sondino dell’ossigeno nel naso, mi hanno trasportato a tutta velocità, su una strada piena di buche, fino all’ospedale di Locri. Io non respiravo, il medico che mi aveva soccorso ci ha seguiti in ambulanza mettendosi una camicia di mio padre perché venendo dalla spiaggia non aveva niente da mettersi addosso. All’ospedale di Locri non sapevano bene cosa fare, io ho dei ricordi perché ero lucido, non ho mai perso i sensi. Mio padre voleva fare qualcosa, ma non sapeva cosa. Dall’ospedale di Locri voleva chiamare un medico di Milano, che conosceva bene, ma non aveva i gettoni per fare la telefonata – c’erano ancora i telefoni a gettone! – cercava un telefono, ma nessuno gli dava retta. Poi quando fece il nome del medico di Milano cui voleva telefonare, finalmente gli diedero un telefono: conoscevano quel medico e ne avevano stima.

A quel punto mio padre poté telefonare al suo amico medico che subito si mise in contatto con il primario di quel reparto chiedendogli come erano impostati i parametri della macchina che mi teneva in vita e il primario rispose che io non avevo nessuna macchina che mi tensse in vita perché tanto non sarei arrivato alla sera. Il nostro amico si arrabbiò moltissimo: li minacciò di denunciarli e finalmente mi collegarono a una macchina che mi permise di respirare.

Intanto i miei si diedero da fare per un soccorso migliore e insistettero per farmi portare a Milano con un servizio apposito, con l’EuropAssistance, in aereo. Ricordo che il viaggio era costosissimo, una quindicina di milioni di allora, e noi non avevamo abbastanza soldi per pagarlo, ma in qualche modo ci riuscimmo, perché mio padre attinse ai conti della sua attività, faceva il meccanico. Il tutto nel giro di poche ore. La sera di quel 13 settembre, dunque, io partii dall’aeroporto di Reggio Calabria per l’aeroporto di Malpensa, poi in ambulanza fino all’ospedale di Legnano, vicino a Milano, che allora era il miglior centro specializzato in quello che oggi si chiamerebbe “unità spinale”. Li mi accolsero, trattandomi bene, quindi iniziai una lenta ripresa.

Poi si scoprì che in Francia c’era un centro dove potevano applicarmi un apparecchio che mi avrebbe aiutato a respirare da solo. All’epoca io respiravo con un ventilatore meccanico – oggi grazie al dramma del Covid sappiamo che i ventilatori meccanici sono apparecchi noti, mentre in quegli anni fuori dagli ospedali nessuno sapeva cosa fossero – ma all’epoca erano quasi introvabili. Oggi con un ventilatore meccanico si può vivere a casa, ci sono dei servizi di assistenza che ti permettono di farlo. All’epoca quasi non esistevano ed era difficile vivere fuori da una struttura ospedaliera. Così in Francia mi applicarono un pacemaker che agiva non sul cuore ma sull’apparato respiratorio con il quale potevo respirare da solo. Grazie a quello io dopo altri tre mesi potei tornare in Italia.

Così io mi feci sei mesi di ospedale a Legnano, dall’incidente al momento in cui partii per la Francia, poi altri tre mesi all’ospedale di Beck-sur-Mer, sulla Manica, per l’impianto e la riabilitazione con questo nuovo apparecchio, poi in Italia dove feci altri sei mesi in ospedale perché prima bisognava attrezzare la casa per potermi assistere. Grazie alle cure amorevoli dei mei genitori, che impararono a fare gli infermieri, riacquisii una buona capacità di autodeterminazione, mantenendo un’ottima qualità della vita.

Poi negli anni l’apparecchio che mi aiutava a respirare ha smesso di funzionare e adesso io respiro con un ventilatore meccanico come quelli che oggi si usano per rianimazione. Oggi è finalmente possibile vivere una vita di qualità molto alta attraverso questi apparecchi che una volta non erano così semplici da gestire.»

Penso sempre che chi nasce con una disabilità, come nel mio caso, non ha poi questo gran desiderio di vivere normalmente. Se mi chiedessero “vuoi camminare?” io risponderei di no… mi fa un po’ paura, non sono abituata. Io non sento la mancanza di una cosa che non ho mai avuto. Mentre chi persona disabile diventa per un incidente talvolta ha il rimpianto di ciò che ha perso, di ciò che poteva fare e non può più fare. Credo sia una condizione più dolorosa. Qual è il tuo punto di vista a riguardo?
«Ti capisco perfettamente. È una condizione che può essere diffusa tra chi è nato nella disabilità e non ha esperienza di una condizione diversa. Non so se si soffre di più o di meno, credo che ognuno viva la sua situazione singolarmente.»

Passiamo a una delle tue tante attività: come sei entrato nel mondo del giornalismo?
«Nel 2007 pubblico con Minnie Luongo – una delle più importanti giornaliste del sociale – il libro “Intervista col disabile” per fare luce sulla disabilità come realtà collettiva. Approdo al mondo del giornalismo su “Italia Oggi”, poi passo a “Club 3”, oggi “BenEssere – La salute con l’anima”, mensile della Periodici San Paolo dove inizio curando la posta dei lettori. Divento giornalista iscritto all’albo nel 2011 e due anni dopo inizio a collaborare anche con il blog “InVisibili” del “Corriere della Sera.it”.»

In quanto soggetto con disabilità hai trovato ostacoli,  barriere,  trattamenti “diversi” nell’avvicinarti al mondo del lavoro?
«Sì, ho trovato delle difficoltà in parte dettate dalla condizione di salute che non mi permette di recarmi quotidianamente sulla postazione di lavoro. D’altra parte, faticavo a trovare interlocutori disposti a investire sulle mie capacità non gratuitamente cioè con un regolare compenso economico.»

Nelle tue interviste racconti storie di vita di uomini e donne, contesti che hanno a che fare con la disabilità e  che hanno dietro, inevitabilmente, vissuti personali. Cosa cerchi, nel tuo narrare, di mettere in risalto o di evitare?
«Cerco di mettere in risalto la realtà della storia  e cerco di evitare di usare il linguaggio sbagliato per non dipingere eroi e per non enfatizzare le lacrime. Cerco di essere obiettivo, di fare in modo che sia la testimonianza stessa a raccontarsi.»

Che cos’è per te il  giornalismo, il suo scopo?
«Lo scopo del giornalismo è fare informazione cioè mettere il lettore a conoscenza dei fatti. Eventualmente, il giornalista può esprimere un parere proprio a patto che si comprenda che è il suo punto di vista.» 

Sei anche poeta. Che cos’è per te la poesia?
«La poesia è nelle cose e consiste nel messaggio che ogni fenomeno comunica. Dal punto di vista tecnico, secondo me, la poesia più alta è quella che riesce ad esprimere il dramma umano nel minor numero di versi.»