Esame di Stato, iscrizione all’albo, abilitazione e aggiornamento attraverso i crediti per mantenerla. Per avvocati, commercialisti, architetti, ingegneri, e anche i giornalisti, funziona così. Il sistema che regola le libere professioni è questo. Ore di convegni a volte pure interessanti, bisogna dire; altre decisamente meno, tanto che in sogno ti appare il ragionier Fantozzi a demolire la Corazzata Potemkin: «È una cagata pazzesca!» ti scuote. Così ti svegli. È in queste situazioni che assisti a spettacoli di ogni tipo: nelle ultime file, solitamente le più affollate, le ore trascorrono tra sbadigli, chiacchiericci, ticchettii di Whatsapp e pagine di “Gazzetta dello Sport”. Questo, se va bene. Se va male, t’imbatti in fenomeni dell’italianità più autentica che si presentano al banco accettazione, mettono la firmetta d’ordinanza, e se ne vanno quindi bellamente a zonzo per i fatti propri, per poi far ritorno a fine mattinata e mettere il secondo autografo a riscuotere l’incasso: i famigerati, ma necessari, crediti.

Ora, al di là di ogni storpiatura e grottesca esagerazione (ma nemmeno poi tanto), le cose vanno così. Per tutti? No. A coloro che in parlamento le leggi le varano, il fardello non è richiesto. I politici, che in fin dei conti sono ormai dei professionisti a tutti gli effetti e rappresentano pur sempre la classe dirigente di un Paese, ne sono esenti. Nessun esame di Stato, nessun test di cultura generale, nessuna abilitazione, nessun credito richiesto per conservarla. L’albo? Suvvia, non scherziamo. Nulla di nulla. Verrebbe da chiedersi perché. Inutile, perché tanto l’ingenua domanda sconfina oltre i recinti della piatta retorica.  

Dieci giorni fa gli italiani si son recati alle urne per il rinnovo dei Consigli regionali, e per esprimere attraverso un referendum confermativo, il proprio assenso o meno alla riforma della costituzione che prevede la riduzione del numero di parlamentari: la netta, peraltro ampiamente prevedibile, vittoria del Sì darà il via libera a un taglio lineare, che non tocca le funzioni di Camera e Senato (il bicameralismo perfetto rimane): il numero dei deputati passerà dagli attuali 630 a 400, quello dei senatori da 315 a 200. Camera e Senato saranno ridotte quindi di poco più di un terzo.

Pur non entrando nel merito, tanto si è già letto e sentito di tutto, è un altro l’aspetto sul quale vorremmo soffermarci. E si ricollega direttamente a quanto sottolineavamo nell’incipit di questa nostra amichevole riflessione. La politica ha posto la questione riducendola al solo aspetto quantitativo, come se la cesoia fosse sufficiente a risolverla. Una sfoltitina e via, come si fa da Mario il barbiere. A noi la faccenda parrebbe un tantino più complessa. Il nocciolo più che nella quantità sta nella qualità. Fattore nemmeno sfiorato.

Dovremmo chiederci: i nostri parlamentari, i nostri consiglieri regionali, finanche i nostri consiglieri comunali, hanno le necessarie competenze? Sono sufficientemente preparati per addentrarsi nei territori della Res Publica? Per non dire poi delle manfrine cui il cittadino deve sottostare ogni qual volta si tratta di assegnare questa o quella poltrona; non serve andare distante, basta rimanere entro le mura di Verona per vedere cosa sta accadendo in questi giorni al gran valzer delle nomine alla guida delle municipalizzate. Tutti reclamano tutto, il povero Sboarina strattonato per la giacchetta. Cose trite e ritrite dal Brennero a Lampedusa. Ma le competenze per aver titolo ad ambire a simili cariche, dove sono?

Vedremmo allora di buon grado un’equiparazione della politica alle altre professioni: test attitudinali di cultura generale per l’ammissione, corsi di aggiornamento per verificare lo stato di preparazione, e specializzazioni. Sarebbe quanto meno un modo per ridurre la distanza astrale che separa oggi il mondo politico da quello là fuori. E non sarebbe un facile e spiccio esercizio populista di antipolitica, ma semmai qualcosa che farebbe bene alla politica stessa e a tutti noi. Ma davvero è così difficile?