Negli USA si avvicina la cerimonia di insediamento del presidente eletto, che si svolgerà in tono decisamente dimesso, senza l’usuale parata davanti al Prato Nord della Casa Bianca e senza la cena di gala, sostituita da una trasmissione tivù condotta da Tom Hanks. È la fine di quattro anni di presidenza Trump, un periodo di luci e ombre, caratterizzato più dalle esternazioni al limite della decenza del Presidente, più che dalle sue azioni politiche, molte delle quali riteniamo assolutamente dimenticabili.

Sembra pensare allo stesso modo il neo presidente Biden, che avrebbe già pronti sul tavolo della Sala Ovale numerosi ordini esecutivi atti a cancellare decisioni controverse del suo predecessore. Tra questi, sembrano esserci il ricongiungimento dei bimbi immigrati separati dai genitori al confine col Messico, una moratoria su sfratti e debito universitario, il rientro nel Club di Parigi sull’ambiente e una legge federale che imponga la mascherina. Conta anche sull’appoggio del Congresso per proporre subito alcuni disegni di legge, tra cui il pacchetto da 1.900 miliardi di dollari per rilanciare l’economia e uno che potrebbe dare la cittadinanza a undici milioni di immigrati irregolari.

L’atmosfera intorno a Capitol Hill, però, non è quella di grande festa che solitamente accompagna l’insediamento. Sono ovunque visibili gli effetti dell’attacco senza precedenti del 6 gennaio. Il National Mall, il viale che arriva fino al Lincoln Memorial, è cosparso di bandiere americane che vorrebbero sostituire la folla e omaggiare le 400mila vittime del Covid-19 negli USA. La presenza di alti muri (non scalabili, ci tengono a precisare dall’FBI), barriere di filo spinato e gli oltre 25mila soldati della Guardia Nazionale schierati rimandano con la memoria alle misure di sicurezza tipiche dei paesi autocratici, di quello che chiamiamo – genarlizzando – il “mondo delle dittature”. Tutto sembra, insomma, tranne l’immagine della “patria della democrazia”, faro liberale adottato globalmente a partire dalla seconda guerra mondiale.

Impossibile non chiedersi quanto gli avvenimenti dell’ultimo anno abbiano allargato la faglia che divide gli USA in fazioni molto radicalizzate. È stato un anno disgraziato sotto diversi punti di vista, per il presidente Trump: iniziato con strane manovre militari nei confronti dell’Iran, continuato con la pandemia sottovalutata e culminato nelle più grandi proteste popolari della storia, cavalcate poi dall’ormai ex presidente per infiammare gli animi dei suoi fan fino a portarli alle conseguenze sotto gli occhi di tutti. Mai, nella storia d’America si era arrivati ad aggredire le istituzioni democratiche. Che, però, hanno avuto modo di dimostrare la loro solidità: gli Stati, che ricordiamo essere parti attive nel processo elettorale, così come tutti gli organismi federali, hanno assolto ai propri compiti con lealtà verso i principi costituzionali, senza lasciarsi tentare dalle spinte “golpiste” che pur si sentivano forti e chiare. Era già successo qualcosa di simile nel 1860, con l’elezione di Lincoln e la Guerra Civile, ma stavolta gli Stati sono stati davvero uniti nel ribadire la propria fedeltà alla democrazia.

Istituzioni coese ma un popolo che non era così diviso e polarizzato dai tempi di McCarthy, con però una grande differenza: se allora il nemico era esterno – lo spettro del Comunismo – ora la contrapposizione è tutta interna, etnica ma anche culturale. Il popolo delle città si oppone alle comunità rurali e alle periferie degli invisibili, chi ha un’educazione superiore e un’occupazione innovativa nella Silicon Valley vive una vita parallela a chi ha lavori tradizionali e poca cultura. Ovviamente c’è poi la distanza tra bianchi e non bianchi, riportata prepotentemente alle cronache dal movimento Black Lives Matter. A differenza della lettura generalista, non riteniamo significativo che oltre 70 milioni di americani abbiano scelto Trump, cosa tipica in un sistema bipartitico, quanto semmai la composizione di questo elettorato che, dati alla mano, si palesa come appartenente in massima parte a una categoria ben definita: bianca, rurale e poco istruita. Quel tipo di elettorato facilmente manipolabile da fake news, post-verità e maggiormente incline alle derive populiste. Il re potrebbe essere quindi morto, politicamente parlando, con il Grand Old Party che sembra prenderne sempre più le distanze (alcuni Rep hanno addirittura votato per l’impeachment); ma la parte degli americani risvegliata e sobillata dal trumpismo non sarà così facile da dimenticare. E sarebbe un grosso errore provare a farlo.

Nel suo messaggio di addio alla nazione, attraverso il sito della Casa Bianca, Trump ha attaccato la censura dei social media – fattore che riteniamo determinante nell’accresciuta influenza e organizzazione dei suoi sostenitori – dicendo che «impedire il libero e aperto dibattito viola i nostri valori fondamentali, in America non si insiste sulla conformità assoluta di pensiero e non si impone l’ortodossia rigida nella comunicazione. Semplicemente questo non si fa»; prosegue poi con quella che a molti è sembrata una minaccia ma che risulta più che altro una promessa: «Mentre mi preparo a consegnare il potere alla nuova amministrazione, voglio che sappiate che il movimento che abbiamo creato è solo agli inizi».

È già accaduto negli States che si creasse un terzo partito estremista (sia di derivazione Dem che Rep), catalizzando malcontento e populismi. In questo caso, Trump troverebbe di certo terreno fertile negli Stati del Midwest e del Sud ma è tutta da valutare la portata effettiva di un tale movimento e, soprattutto, l’accoglienza che troverebbe nel ramo tradizionalista dei Repubblicani. Il peso del Partito, maiuscola necessaria, che si sta rifacendo il trucco in vista delle prossime elezioni, si nota anche nelle decisioni dell’ultima ora, quella lista di “graziati” in cui gli analisti si attendevano anche Trump stesso. La scelta si è invece spostata su casi giudiziari in cui la pena risultasse sproporzionata all’offesa, in particolare rispetto a casi analoghi in cui l’imputato avesse collaborato con la giustizia. Trump non si smentisce, a lui gli infami non sono mai piaciuti.

Tra i beneficiari della grazia compaiono figure popolari, casi giudiziari d’impatto mediatico e anche un paio di rapper con piccole condanne per porto abusivo d’armi o detenzione di stupefacenti. Tra i nomi controversi spicca quello di Steve Bannon, fautore della vittoria di Trump nel 2016 e condannato per frode in relazione alla raccolta fondi “We build the wall”: che abbia rubato soldi a chi li donava per costruire il famigerato muro di confine con il Messico ha quasi un sapore di giustizia superiore e ci fa provare persino simpatia per il (dis)graziato Bannon. L’attacco a Capitol Hill di pochi giorni fa ha contribuito a far desistere Trump dall’inserire se stesso e i membri della sua famiglia nella lista, così come non compaiono i responsabili dell’attacco stesso, anche se a caldo Trump avrebbe commentato che «non hanno sbagliato niente». Manca anche il mitico Rudolph Giuliani, suo avvocato personale e sodale indefesso fino all’ultimo. Ma ehi, ha ancora qualche ora per sorprenderci.