La notizia, giunta questa mattina, della scomparsa di Philippe Daverio lascia sgomento il mondo della cultura e degli amanti dell’arte. Il critico non era solo noto, era pure amato, grazie alla sua grande capacità comunicativa e al suo sapere poliedrico. Era molto legato a Verona, spesso ospite di eventi, ma anche padrino di mostre e di artisti. Ripubblichiamo l’intervista comparsa su “Verona Fedele”, in occasione della prima esposizione di Agron Hoti nel dicembre 2016 a Palazzo Carlotti, in Corso Cavour. Una piccola lezione sul contemporaneo, che esprime bene la personalità del critico e il suo talento nel tessere legami estetici tra presente e passato.

«La modernità è un mondo nel quale le cose non sono esattamente come appaiono.» Nulla è come può sembrare nei lavori di Agron Hoti, il pittore che ha affascinato il professor Philippe Daverio. «Stavo girando un video per “L’Arena” – racconta il critico d’arte –, quando mi sono ricordato che volevo andare a fare visita a un negozio di tappeti. Giunto lì, con mia sorpresa, ho visto che al posto del negozio c’erano quadri. Ho guardato quelle tele e ho compreso il talento e la capacità.»

«I suoi lavori sono molto diversi gli uni dagli altri. Collage, macchie di bianco e di nero, esplosioni di colori, vulcani che eruttano fuoco. Si innescano una serie di meccanismi psicologici che cambiano completamente ogni volta – racconta lo storico dell’arte –. Questa faccenda è interessante: al giorno d’oggi c’è da chiedersi perché siamo finiti ad ammirare i quadri astratti.»

La cultura figurativa ha lasciato il passo all’astrattismo. «In tremila anni abbiamo guardato quadri di chi sapeva disegnare una capra più o meno bene – prosegue –, abbiamo avuto una cultura costantemente figurativa; poi si è deciso di abbandonarla. Questa è la chiave della modernità.»

La colpa è anche di Sigmund Freud: «A un certo punto a Vienna c’è stato un signore con la barba grigia e il sigaro che ha detto: “Non credo a ciò che mi raccontate. Dietro a quello che mi dite ci sono i sogni e dietro a i sogni c’è la vostra coscienza sotterranea.” E si è cominciato a vedere il mondo in maniera diversa.»

La modernità è un mondo nel quale le cose non sono esattamente come appaiono. «Le cose sono diverse e sono quelle che abbiamo in fondo alla testa, allo stomaco, sono quelle che fanno la nostra parte viscerale. Questa è la scoperta dell’astrazione.» L’artista, dunque, non rappresenta il visivo ma ciò che sta all’interno di se stesso. In che modo?

«In mille modi diversi – spiega il professore –, per esempio nei quadri di Mondrian: bisogna mettere il naso davanti alle sue geometrie per capire che lì dentro c’è una materia viva, un’energia infinita. Ognuno ha percorso la sua strada e tra tutte queste ce n’è una che chiamiamo “espressionismo”. È un modo di esistere, è per l’appunto, l’esprimersi. E questo esprimersi porta a letture ogni volta completamente diverse.» Come nei quadri di Hoti.

Da sinistra, l’artista Agron Hoti, Serena Dei e Philippe Daverio

«I popoli del Mediterraneo hanno da sempre questa curiosa propensione per la materia ­­– prosegue Daverio ­–. Ce l’avevano i Greci, gli Egizi, gli Italici. E anche nelle opere di Agron la materia è protagonista e dialoga con la pittura. È la materia stessa che genera il risultato: in un quadro astratto l’artista inizia il suo percorso e non sa dove lo porterà, è tutto in continua evoluzione. Ma se guardate i suoi lavori, che potrebbero anche essere sezionati, il pezzo più intrigante del singolo elemento rimarrebbe un elemento minimo di un percorso massimo che testimonia la sua forza poetica.

Questo gioco fa sì che la gestualità e l’energia siano la rappresentazione di ciò che chiamiamo appunto espressività. Dominare la propria espressività e farla saltare fuori. Che lo amiate o disprezziate nei suoi lavori c’è sempre Hoti. E questo aspetto corrisponde a un’altra caratteristica della modernità: l’esaltazione dell’individualismo.»