Negli USA bruciare la bandiera nazionale non è un reato, come hanno affermato due sentenze della Corte Suprema del 1989 e del 1990, secondo le quali il rogo del vessillo nazionale è un’espressione della libertà di parola, protetta dal Primo emendamento. In Italia chi lo fa commette il reato di vilipendio ed è punibile con la reclusione fino a un massimo di due anni.

Occorre partire da queste concezioni così differenti per svolgere qualsiasi ragionamento relativo alla libertà di espressione e alla tutela dei Diritti nelle liberaldemocrazie occidentali. Cosa è preferibile? Un sistema che definisca chiaramente una serie di obblighi e di sanzioni oppure uno che lasci la totale libertà di espressione, quand’anche questa dovesse sfociare in opinioni o azioni che potrebbero essere considerate offensive da parte di alcuni?

Dare una risposta a questa domanda è urgente, dato che in questi giorni nella società italiana si sta tenendo un confronto sul ddl Zan-Scalfarotto, il disegno di legge, in discussione oggi alla Camera, che introduce nel Codice penale il reato di discriminazione fondato sull’identità di genere e l’orientamento sessuale, integrando di fatto quanto già previsto dal “Decreto Mancino”, il quale nel 1993 aveva introdotto il reato di discriminazione in base alla nazionalità, all’etnia o alla religione. Lo spirito del disegno di legge si inserisce nel solco tracciato dal dibattito culturale in corso da qualche tempo in Italia, che lo scorso anno ha visto avanzare (e naufragare) l’ipotesi della costituzione di una “Commissione contro l’odio” che avrebbe dovuto essere presieduta dalla senatrice Liliana Segre, sopravvissuta ai campi di sterminio nazisti. I sostenitori del ddl Zan-Scalfarotto lo ritengono una risposta necessaria agli atti di violenza e discriminazione dei quali sono sovente vittime i cittadini Lgbti (evito di usare non a caso il termine “comunità”). Gli avversari, ascrivibili all’area politica definibile “di destra”, lo osteggiano utilizzando in maniera molto spesso strumentale l’argomento della “libertà di espressione”, sostenendo che potrebbe essere utilizzato come bavaglio per mettere a tacere opinioni difformi rispetto a un non meglio definito “pensiero unico”.

La destra nel merito pone una questione corretta seppur per motivazioni strumentali. Detto francamente, non siamo assolutamente disposti a concedere alcuna patente di credibilità a una destra italiana che rifiuta la legislazione contro le discriminazioni di genere richiamandosi a principi liberali che sono totalmente assenti nel suo DNA. Tuttavia occorre affermare che da una prospettiva libertaria l’eccesso di legislazione è una seria minaccia alla libertà che gli stessi cittadini Lgbti dovrebbero avversare con decisione.

La prima osservazione da fare è che per punire l’odio e la violenza esiste già un Codice penale che prevede reati e relative pene. Esistono inoltre le aggravanti, che si applicano in presenza di specifiche circostanze, come ad esempio la crudeltà.

È passata in cavalleria invece la certezza della pena, la cui eclisse ne ha sgretolato la funzione di deterrenza la quale assieme alla riabilitazione dovrebbe costituire la base sulla quali si fonda l’istituto penale. E forse questo, più che la definizione di spazi giuridici particolari, dovrebbe essere un tema di riflessione. La creazione di “Four enclosed walls” (Cit. Public Image Ltd.) del diritto in cui come una riserva indiana vengono raccolte delle comunità protette come i panda cinesi, in generale dovrebbe essere vista come un’aberrazione.

La definizione di ambiti giuridici protetti non ha mai dato prove di efficacia, in Italia come all’estero. Del resto, il fallimento implicito del “Decreto Mancino” è testimoniato dalla proposta, più di tre lustri dopo la sua emanazione, della creazione di una “Commissione contro l’odio”. Inoltre, ridefinisce giuridicamente di fatto la condizione di ghetto nella quale spesso i cittadini Lgbti si sono trovati loro malgrado. E nella quale, occorre dirlo con schiettezza, talune loro frange ci si trovano ancora assai a loro agio, per lucrare propagandisticamente su tale collocazione.

Poi, piaccia o meno ai cittadini Lgbti che si sono sollevati contro alcune proposte di emendamento al ddl avanzate dalla destra, il processo di legiferazione prevede la possibilità che il testo base in Parlamento sia oggetto di emendamenti, i quali possono diventare legge se votati a maggioranza. Rischi del mestiere (e del processo democratico) nei quali si può incorrere se si vuole che alcuni aspetti della propria esistenza abbiano la bollinatura dallo “Stato”. E qui occorre aprire una parentesi. In Italia, Paese dove si è fatto dell’assistenzialismo e della definizione di categorie sussidiate la base della coesione nazionale, la definizione di un’ennesima “categoria protetta” ha un grande aplomb. In Italia la società si è sempre risolta nello Stato come sorta di “prestatore ultimo” di legittimità ai diversi gruppi sociali, definendone le regole per l’appartenenza e la loro suddivisione in ordini, categorie, partiti, sindacati e così via. C’è però un argomento molto concreto portato da chi è a favore di questo tipo di legislazione: come nel caso delle “Quote rosa” potremmo essere di fronte a un “male”, ma a un male necessario. Allo stesso modo in cui la legislazione sulla parità di genere è necessaria, seppur filosoficamente sbagliata, perché consente alle donne di essere rappresentate nelle istituzioni ove altrimenti non avrebbero spazio adeguato, così la legislazione di “protezione” delle identità di genere, seppur non auspicabile per i motivi che abbiamo visto, è necessaria al fine di difendere dalle discriminazioni i cittadini Lgbti.

L’argomento è indiscutibilmente fondato, ma è altrettanto indiscutibile che una società sana non dovrebbe nemmeno pensare di istituire “riserve indiane” per rinchiudervi dentro parte dei suoi componenti.

L‘odio non si elimina per decreto, il rischio dell’eterogenesi dei fini è assai concreto. Il risultato è la radicalizzazione delle varie posizioni. L’unica maniera efficacie per contrastare le derive sociali quali omofobia, antivaccinismo, terrapiattismo e così via, è la diffusione capillare del pensiero critico. Come? C’è solo l’imbarazzo della scelta. Dalla scuola all’associazionismo i canali non mancano. Tenendo presente alcune elementari considerazioni. La prima è che nell’arena democratica le decisioni si prendono dopo un confronto dialettico che porta a un compromesso. La seconda che non esistono sistemi valoriali assoluti che possano essere inseriti “Sic e simpliciter” nel corpus giuridico. Un’operazione del genere si chiama “totalitarismo”, e qualche problemino in passato lo ha già causato. La terza è che l’origine dei Diritti è Politica, non morale. Ogni Diritto presuppone l’esistenza di una forza che renda possibile la sua applicazione. E nella società democratica questa forza si chiama “consenso” e si acquisisce “dal basso”, non per decreto dall’alto.

Ritorniamo alle nostre bandiere con le quali avevamo iniziato il nostro ragionamento, libertà o costrizione quindi? Bruciamo le bandiere impunemente o perseguiamo chi lo fa? Esiste una terza via. Le bandiere della UE non bruciano perché le sue stesse direttive impongono che siano fatte di materiale ignifugo, come abbiamo scoperto vedendo le immagini dei Brexiters e dei No UE coprirsi di ridicolo mentre si affannavano inutilmente nel vano tentativo di dar fuoco all’odiato vessillo della Comunità Europea. Costruire una società che abbia le stesse caratteristiche della bandiera UE, libera da consentire l’espressione di qualunque opinione, e allo stesso tempo forte da neutralizzare tutte le spinte disgregatrici, questa è la vera sfida, culturale prima che giuridica. Ma questa è un’altra storia.

Le foto di copertina e dell’articolo sono di Osvaldo Arpaia.