Diversamente da come ci si aspettava, questo Governo è finito senza che quasi nessuno nella maggioranza rivendichi ciò come una vittoria.

Non certo Giuseppe Conte, il primo che – non si sa quanto volontariamente – ha dato il segnale del “liberi tutti”. Eppure, ci aveva provato a rimediare con la promessa di ritirare i suoi ministri ma garantendo l’appoggio esterno, così da prepararsi alle elezioni con uno spendibile “ritorno alle origini”. Di fatto, Conte è rimasto ostaggio del suo coraggio, stretto nel M5s tra un’ala oltranzista e un’ala responsabile per le quali non è davvero il leader. Il messaggio di Paola Taverna – che dopo aver ascoltato il discorso di Draghi ha fatto sapere a Conte che i duri e puri non avrebbero votato la fiducia – metteva di fronte alla verità il povero Giuseppi: non è lui che comanda. Rimane da capire chi allora guidi il partito: come al gioco dell’oca, siamo tornati al fine stratega Beppe Grillo, magari con i due astri nascenti della Virgy e del Dibba?

Non certo Matteo Salvini, che da mesi sui social punta ossessivamente a scalzare i ministri Lamorgese e Speranza. Probabilmente sperava che, autoesclusisi i Cinquestelle, Draghi avrebbe abbozzato e fatto un nuovo governo così come proposto dalla mozione del capogruppo al Senato Massimiliano Romeo. La Lega, ora come ora, è in difficoltà, schiacciata dalla concorrenza di FdI con cui sono di fatto fratelli coltelli e da una conduzione politica “di lotta e di Governo” che ha scontentato un po’ tutti. In più, a giugno, dalla Lombardia è scoppiata la grana del Congresso per rifondare “l’altro partito” svuotato da Salvini, ovvero la Lega Nord autonomista/federalista. E da un Congresso si sa come si entra ma non come si esce…

Forza Italia, il partito della responsabilità, vede ora l’uscita stizzita di Maria Stella Gelmini e Renato Brunetta. Per carità, non stiamo certo parlando di De Gasperi o Keynes, però il fatto testimonia la lenta erosione del partito in termini di personalità verso la galassia del centro. Il mondo imprenditoriale – il tradizionale bacino elettorale del Caimano – non è affatto contento di questa scelta (le ultime, in ordine di tempo, le dichiarazioni di Laura Dalla Vecchia, presidente di Confindustria Vicenza).

Sconfitto risulta pure Mario Draghi che per scelta – o per sfizio – ha continuato con la sua linea politica: scontentare tutti e fare il duro, come se lo Stato fosse un’azienda o un consiglio di amministrazione. La scelta di chiedere il voto esclusivamente sulla mozione Casini (ovvero: fiducia incondizionata al Presidente del Consiglio) è sembrata una via di mezzo tra la spacconata e la voglia di ribaltare il tavolo. Da non politico, si è rivelato scarsamente in grado di trovare equilibri e accordi attraverso il dialogo politico e il compromesso. La sua replica al Senato non ha fatto sconti. La scelta del voto sulla mozione Casini è coerente: prendere o lasciare, sapendo che nessuno era più disposto a cedere, lui compreso. Ricorda un po’ Scipione l’Africano: troppo orgoglioso per battersi in tribunale, preferì ritirarsi in volontario esilio.

In conclusione. Qualcuno sussurra che la vera ragione della crisi stia nel fatto che i tre partiti protagonisti della caduta del Governo siano i più filorussi (e in più c’è da contare FdI). Sarebbe, dunque la vittoria, della diplomazia russa. Altri, invece, che i parlamentari neoeletti, avendo oramai maturato il diritto alla pensione (quattro anni, sei mesi e un giorno) e rassicurati dalle date proposte per le elezione del 25 settembre o del 2 ottobre, si siano finalmente sentiti liberi di muoversi. Sarebbe, in questo caso, la vittoria della miseria umana italica. In ogni caso, si va al voto con un sistema elettorale che nel 2018 ha chiaramente fallito nel suo intento di garantire la governabilità.

“Tutto dipende da me; e se dipende da me, sono sicuro che non ce la farò” (Nanni Moretti, Caro diario).

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