Mentre l’economia mondiale prova a riprendersi dalla pandemia Covid cercando di far ripartire i consumi e di risollevare un PIL in caduta libera per gli Stati più colpiti (per l’Italia, ad esempio, si prevede un pesante -11%), rimane tuttavia percepibile come rumore di fondo lo smarrimento del cittadino, che si trova ad affrontare un evento inaspettato e complesso con gli strumenti concettuali semplificati e dicotomici dell’odierna comunicazione politica ed economica.

Un cittadino che, nella difficile congiuntura economica, teme di perdere quanto ancora possiede, suppone favoritismi e complotti su più livelli, vede sfilacciarsi i legami sociali e, soprattutto, subisce l’appiattimento della sua dimensione al mero ruolo di consumatore e lavoratore. Scomparso l’orizzonte ideologico del secolo scorso, che proponeva ideali sociali divisivi ma ammalianti, oggi sfoga sui social la sua frustrazione per l’incapacità di cogliere e accettare la complessità del presente, snervato dall’eccesso di informazioni dei media, dal perenne senso di emergenza, dalle connessioni tra eventi che richiedono approfondimenti e conoscenze raramente alla sua portata. Un chiacchiericcio sempre più arrabbiato di voci sole.

A differenza del mondo anglosassone, l’Italia ha cercato di mitigare questo senso di smarrimento attraverso campagne mediatiche che rivendicano orgogliosamente l’italianità come appartenenza e, a partire da settembre, il ripristino curricolare di materie scolastiche tese a ravvivare il senso di comunità, come l’Educazione Civica. Operazione culturale ancora possibile perché l’educazione in Italia è affidata a un personale docente piuttosto vecchio (49 anni di media) la cui formazione è ancora di stampo novecentesco, anche se le riforme degli ultimi vent’anni hanno spinto molto affinché si passasse dalla formazione di un cittadino consapevole a quello di un addetto capace, dall’elaborazione critica autonoma all’analisi critica passiva con le relative competenze. Di fatto, quindi, se il sistema educativo in ogni paese ha il compito di formare ragazzi in linea con lo spirito del proprio tempo, in realtà la proposta culturale in Italia è ancora parzialmente ancorata a modelli e principi che non sposano acriticamente il sistema valoriale contemporaneo. Ma quale principio dovrebbe guidare le nostre azioni come cittadini e come consumatori? Quale principio etico dovremmo trasmettere ai nostri studenti?

Peter Sloterdij

Per provare a colmare questo vuoto, il filosofo Peter Sloterdijk prova ad aggiornare l’imperativo categorico di kantiana memoria, agisci soltanto secondo quella massima che, al tempo stesso, puoi volere che divenga una legge universale, con una massima più vasta e adatta alla complessità del mondo  moderno, ovvero agisci in modo che attraverso le conseguenze del tuo agire venga supportato o, per lo meno, non impedito il sorgere di un sistema globale di solidarietà; agisci in modo tale che la normale prassi del saccheggio e dell’esternalizzazione fin qui in uso possa essere sostituita da un ethos della protezione globale; agisci in modo tale che dalle conseguenze del tuo agire non derivino ulteriori perdite di tempo per la svolta inevitabile nell’interesse di tutti[1].

Una proposta articolata anche nella sua formulazione ma che risponde a un orizzonte di complessità per l’essere umano di oggi, che si trova, con le sue scelte e le sue azioni, a rapportarsi con un sistema politico ed economico che genera ciclicamente tensioni internazionali tra le grandi potenze che condizionano le scelte nazionali e, a cascata, i comportamenti individuali. Prendiamo, ad esempio, una questione che tocca tutti gli abitanti del globo terracqueo: il clima, la lotta all’inquinamento e al riscaldamento globale. Nella massima di Kant e di Sloterdijk diventerebbe imperativo morale assumere comportamenti virtuosi come la preferenza per il riciclo, il riuso, la parsimonia nell’acquisto e le energie rinnovabili. Ma lo è nella quotidianità delle masse? Da quel che sappiamo decisamente no. Diventa, quel comportamento, per certi versi una forma di atto rivoluzionario, quasi da resistenza passiva gandhiana.

Rivoluzionario perché, dal punto di vista economico, il sistema attuale è dominato dall’ossessione del PIL (prodotto interno lordo) come parametro di verità. La sorte di Stati e comunità è legata alla fiducia generata da quel valore, valore che considera ricchezza la produzione a prescindere dal costo in termini sociali e ambientali e la verità è che ogni casa costruita è un prato in meno, ogni auto prodotta costa gas serra, ogni metallo estratto e non riciclato è una risorsa persa. Il PIL insomma, figlio delle teorie economiche di Adam Smith e Karl Marx, non considera “l’elefante nella stanza”, ovvero il paradosso di un sistema economico a crescita indefinita all’interno di un ecosistema chiuso, la Terra.

Un puntino tra miliardi. La scelta del singolo cittadino, nella logica di salvaguardia dell’ecosistema, dovrebbe essere ispirata a modelli arcaici, quasi da civiltà contadina, di riduzione degli acquisti: comportamenti contrastati da un marketing sempre più capillare e personalizzato, dall’induzione di bisogni sempre più mirati ed emozionali e, non ultimo, dall’obsolescenza programmata che vanifica ogni tentativo di limitare gli acquisti. Un sistema che si poggia su un equilibrio fragile e che, per perpetuarsi, ha bisogno di una collaborazione costante pena crisi sanguinose. È un problema che ricorre ciclicamente: come aveva già acutamente intuito Lenin, la I guerra mondiale è scoppiata per lo scontrarsi tra imperialismi, ovvero “in una guerra tra Germania e Inghilterra la questione non è la democrazia, ma il dominio mondiale, lo sfruttamento del mondo”[2]: un sistema a crescita infinita ha perennemente bisogno di nuovi spazi per vendere ciò che produce e gli attori, quando lo spazio si riduce, entrano in conflitto. Con questo non si intende affatto dichiarare prossima la fine del Capitalismo come sistema economico, che anzi ha dimostrato una vitalità tale da superare ogni crisi rinviando al giorno del mai l’utopia comunista, quanto segnalare che, nell’ottica della responsabilità verso se stessi e il mondo, questo tipo di economia non è solo controproducente ma pure pericolosamente instabile poiché mette in competizione non solo aziende globalizzate ma anche gli Stati nazionali e persino gli individui nel loro ruolo di lavoratori.

Un puntino tra milioni. E, infatti, pure le strategie della politica nazionale condizionano le scelte responsabili del singolo, ostacolandole o proibendole. Facciamo un esempio attuale: l’auto elettrica viene da molti indicata come il futuro per il trasporto pulito; nonostante ciò, paesi come la Germania insistono su altre fonti energetiche come l’idrogeno e non solo per una questione di pluralità di fonti, quanto piuttosto perché l’Oriente, e la Cina in primis, detiene il controllo quasi totale della produzione delle batterie. Ne discende che una scelta “pulita” come quella dell’elettrico, se da un lato favorirebbe la salvaguardia del clima, dall’altra renderebbe l’Occidente energeticamente dipendente dall’Oriente, come segnalava recentemente anche Milena Gabanelli. In questo, come si vede, la scelta dei singoli non può essere del tutto libera perché, se diffusa su larga scala, andrebbe in conflitto con equilibri molto più vasti che non ragionano sulla sostenibilità delle scelte ma, in questo caso, sullo spostamento della ricchezza – e conseguentemente del peso politico ed economico – verso l’Oriente.

Un individuo in un gruppo. Come ha dimostrato l’esperienza di questa epidemia, nei momenti di crisi il naturale rifugio è la famiglia, il gruppo che gira intorno a un luogo, a un’idea o a un simbolo. Gruppi con funzione difensiva e in competizione tra loro, come i dipendenti di aziende a rischio chiusura che lottano per tornare competitivi e, quindi, riprendere quote di mercato a scapito di altre aziende e, quindi, altri gruppi. Ma è pure in questa dimensione a misura d’uomo (anche la comunicazione social, per quanto virtuale, può essere compresa in questo discorso) che nascono spontanei gruppi che cercano di diffondere dal basso strategie di scambio come i GAS (gruppi di acquisto solidale), scambi solidali, banche del tempo fino a cose minute e apparentemente marginali come le “stoviglioteche”: è, paradossalmente, nei piccoli gruppi che risulta più agevole condividere e praticare le scelte ideali di solidarietà e dell’ethos della protezione che dovrebbero, nelle intenzioni del filosofo, essere applicati su scala globale per imprimere una nuova direzione al destino dell’umanità.

L’individuo. Anche per i piccoli gruppi, tuttavia, si annoverano nubi all’orizzonte. L’affermazione di un modello economico liberista si ritrova anche nei rapporti interpersonali, rendendo obsoleti i modelli relazionali di solo qualche decennio fa. L’individuo vede sfilacciati i suoi legami a causa dell’atomizzazione della società, della mediazione della virtualità nelle attività e nei rapporti umani (dal cercare lavoro all’amore), dal liberismo competitivo anche negli affetti, dal maggiore spazio all’emozione piuttosto che alla riflessione. Se per un adulto assumere un comportamento etico risulta difficile a fronte delle sirene del mondo contemporaneo, per un ragazzo – che vive un sistema educativo sempre più post ideologico – è quasi impossibile, stretto com’è tra la necessità di rassicurarsi omologandosi agli altri attraverso il possesso di oggetti standard e di individualizzarsi attraverso altri prodotti, però, sempre di consumo di massa. La proposta etica di sostenibilità si fonda su una responsabilizzazione che si sostanzia nella rinuncia che un giovane, oggi, fatica ad accettare visto che, nel suo mondo fatto di informazioni accelerate, semplificate e dicotomiche, il messaggio è che la felicità e le emozioni passano necessariamente attraverso la competizione, la sostituzione e il possesso.

Ecco, quindi, la sfida che ci attende: scegliere di formare cittadini consci dei propri doveri sociali oltre che dei propri diritti individuali, capaci di assumere comportamenti consapevolmente resistenti. Una scelta, quasi un atto di fede per ciascuno di noi che “deve essere il più impaziente possibile e, allo stesso tempo, di avere tutta la pazienza necessaria”[3] e che, prima ancora che dalla scuola (che perderà a breve le generazioni di docenti formati nel ‘900), necessariamente deve partire dal basso, dalle famiglie, dai cittadini, perché, come abbiamo visto, sgretola le fondamenta dell’economia.


[1] Peter Sloterdijk, Dopo Dio, Varese 2018.

[2] K Karl Kautsky, Neue Zeit, anno 28, 26 agosto 1910.

[3] Peter Sloterdijk, Dopo Dio, Varese 2018.