È notizia di ieri dell’ennesimo suicidio di un agente penitenziario. Un dramma enorme a cui si aggiunge la beffa, per la vedova, della richiesta di restituzione di un milione di euro ricevuti come risarcimento per il calvario ospedaliero del marito, originario de L’Aquila. Purtroppo non si tratta di un caso isolato, anzi. Durante il Fascismo il fenomeno del suicidio era oscurato, in quanto avrebbe messo in dubbio che l’Italietta mussolinina fosse un paese felice; con la democrazia di oggi, le notizie passano il filtro della cronaca, ma di fatto ancora non sono sufficienti a spingere il Legislatore a intervenire per tentare di prevenire o ridurre il fenomeno.

Il numero totale dei suicidi in Italia è consistente e in crescita: i morti per suicidio nel 2010 sono stati ben 1827 in tutta Italia (di cui 320 solo nel Veneto), mentre nel 2017 si arriva ad un totale nazionale di 3935: per fare un confronto sui numeri di emergenze ritenute più pressanti dalla cronaca, i morti sul lavoro nel 2019 sono ad oggi 700 (record, e tuttavia meno di un quinto); i deceduti a seguito di incidenti stradali 3500. Il fenomeno è dunque molto consistente, anche se poco visibile. Il dato diventa ancora più impressionante nel focus dedicato alle forze dell’ordine: tra il 2010 e il 2018 sono stati registrati 252 episodi di suicidio (fra Carabinieri, Polizia, Guardia di Finanza, Polizia Penitenziaria e Polizia Locale) con un’incidenza di 9,8 casi su 100mila appartenenti alle varie istituzioni, quando il valore percentuale legato alla popolazione è di 5/100mila. Quasi il doppio e in controtendenza, perché la percentuale nazionale è passata da un 8.0% del 1993 al 5,9 del 2009. I più colpiti dal fenomeno sono i corpi di polizia e della penitenziaria. Le cause? Lo stress, la frustrazione, i problemi familiari, l’esposizione e l’assorbimento delle problematiche e delle contraddizioni sociali del loro ambiente; intime lacerazioni che vengono spesso risolte con l’arma d’ordinanza (88%) e ne sono talvolta vittime i familiari, come nel caso di Foggia. Non sono i giovani i più colpiti dal fenomeno, ma in primis la fascia d’età 45-64 , oltre 50%, e poi la fascia 25-44 (dati 2019).

Ecco dunque il senso della direttiva del 2004 che punta a un miglioramento complessivo della condizione della forza di pubblica sicurezza, sia negli ambienti di lavoro sia nelle condizioni generali lavorative e psicologiche. Passi da allora se ne sono sicuramente fatti, ma i numeri sono purtroppo impietosi: siamo in fase definita di “riflusso”. E se le direttive ci sono, forse allora mancano le risorse per attuarle, sempre promesse ma spesso mai elargite.