Queste semplici parole mettono fine ad una delle pagine più dolorose dell’invasione russa in Ucraina. Kherson era stata occupata in modo fulmineo: i primi combattimenti del 24 febbraio, coadiuvati dai tradimenti, hanno permesso ai russi di entrare nella regione. Una settimana più tardi la città di circa 290mila abitanti era già occupata. Sembrava impossibile riprenderla, vista la sua importanza strategica per la conquista di Odessa.

Invece no: grazie ad una rapida avanzata simile a quella di settembre nella regione di Kharkiv, gli ucraini hanno liberato in una sola settimana 179 insediamenti sulla riva destra del Dnepr. L’11 novembre le forze armate ucraine sono entrate a Kherson, per la grande gioia dei pochi abitanti rimasti dopo mesi di terrore. Così i russi hanno perso l’unico capoluogo regionale da loro conquistato, dichiarato “territorio russo”.

La ritirata annunciata

A differenza di Kharkiv, l’avanzata a Kherson non è stata una sorpresa. Gli occupanti hanno avuto un mese per ritirarsi, lasciando città e villaggi sventrati, depredati e minati. In questa zona prospera, ricca di agricoltura e commercio, vicina ai porti del Mar Nero, c’era da rubare parecchio.

Soldati ucraini si concedono delle foto di rito davanti a un cartello stradale della città di Kherson. Foto da Ukrainian Witness.

Le voci della ritirata circolavano da metà ottobre. Si temeva ci fosse un piano diabolico dietro la repentina ritirata. Forse mineranno tutto? Faranno saltare la diga di Nova Kahovka? Lasceranno le truppe d’assalto travestite da civili per fare guerriglia urbana? Le teorie erano tante: i russi cercavano una spiegazione conforme alle granitiche posizioni della propaganda.

Era difficile non accorgersi del divario fra i loro vagheggiamenti e la realtà. I primi ad accorgersene sono stati i corrispondenti di guerra. Abituati a celebrare la prodezza dell’esercito russo, stentavano a credere che la ritirata non fosse un’astuta trappola. La loro perplessità si diffondeva sui canali Telegram più patriottici. Fra i malcontenti che criticavano lo Stato maggiore per mancanza di coerenza, c’era il vice-governatore Stremousov: il 9 novembre fu investito da un mezzo militare russo. Coincidenza?

La centrale idroelettrica di Nova Kakhovka nell’oblast di Kherson, foto del 2006.

Per far tacere i dubbiosi, lo stesso giorno il ministro della Difesa Shoighu e Surovikin, comandante delle forze militari russe in Ucraina, spinti dall’improvviso afflato umanistico, hanno deciso che la ritirata dalla riva destra del fiume era indispensabile per proteggere i loro soldati, legittimando un processo iniziato di fatto ad ottobre.

In realtà, le persone erano l’ultima cosa a cui badavano, lasciando i propri soldati attraversare il Dnepr sotto il tiro dell’artiglieria ucraina. La vera priorità era un’altra: distruggere e depredare.

La refurtiva: il trenino, le reliquie e il procione

Per prepararsi alla ritirata gli occupanti hanno rovinato le centrali idriche e elettriche, hanno bucato i ponti e le dighe, dimentichi delle proprie promesse di prendersi cura di questa terra “russa da sempre e per sempre”. I danni infrastrutturali inflitti sono sistematici e gravi, e rendono invivibile questa terra, florida fino all’arrivo dei russi.

Hanno portato via le provviste, svuotando i depositi di grano e le cantine dei contadini, privando di scorte una delle zone agricole più fertili dell’Ucraina.

Rubate le risorse primarie, sono passate alla cultura: se una colonna di camion porta via 15.000 opere dal museo d’arte di Kherson è chiaramente un piano sistematico, non un’iniziativa individuale. Continuando il loro piano di rimozione della memoria, i russi hanno disseppellito e portato via la salma del conte Potemkin, favorito dall’imperatrice Caterina II, che ha poi dato il nome alla corazzata e poi al celebre film. Hanno “salvato” il suo monumento, rimuovendolo insieme a quelli dell’ammiraglio Nakhimov e del generale Suvorov. Questi eroi dell’esercito imperiale non saranno rimpianti: i tempi in cui gli ucraini erano ancorati al passato comune sono passati.

La cattura del procione, custodito in uno zoo di Kherson.

Alcuni episodi di questa folle corsa predatoria sfiorano il ridicolo: fra i veicoli in ritirata è stato avvistato un trenino per bambini. Si pensava fosse il colmo, ma poi è stato rubato anche un procione! Un uomo, identificato come proprietario di un safari-park in Crimea, si è fatto riprendere mentre tirava fuori dalla cuccia un procione allo zoo di Kherson. Sembrava stesse combattendo con un pericoloso nazionalista: l’animale malcapitato ha opposto una strenua resistenza. Alla fine, questo essere “pericoloso” è stato pigliato per la coda e gettato nella gabbia. Con lui, sono stati deportati un lama, un asino e un lupo.

Minacciosi o ridicoli?

Tanti sono gli episodi di piccolo grande squallore, fastidioso come i cavi elettrici che loro strappano nella ritirata. Ma proprio questi furti, declinati fra il grave e il ridicolo, mostrano che invece di essere degli invincibili guerrieri si è di fronte a una banda di violenti saccheggiatori.

Kherson ora può aprire la strada verso la Crimea e avvicinare il giorno di liberazione. E avvicina il tempo della ricostruzione, dei criminali processati, e del maltolto restituito. Quel giorno i profughi potranno rientrare a casa e le angurie di Kherson, simbolo di una terra molto fertile e divenute uno degli emblemi della resistenza, torneranno a deliziare tutta l’Ucraina.

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