Se ne vanno i maestri e ci si sente disorientati. Ennio Morricone questa mattina ha salutato il mondo. Così l’Ansa riportava poche ore fa la nota diffusa dal legale e amico di famiglia Giorgio Assumma: «Ha salutato l’amata moglie Maria che lo ha accompagnato con dedizione in ogni istante della sua vita umana e professionale e gli è stato accanto fino all’estremo respiro, ha ringraziato i figli e i nipoti per l’amore e la cura che gli hanno donato. Ha dedicato un commosso ricordo al suo pubblico dal cui affettuoso sostegno ha sempre tratto la forza della propria creatività».

Una carriera immensa, per produzione e qualità, ma anche una figura di italiano come ce ne sono pochi: geniale, acuto, operoso, colto, allergico all’inutile. Con Verona da anni aveva stabilito un legame professionale intenso, indimenticabili per il pubblico le sue esibizioni nell’anfiteatro areniano, ultime le date del 18 e 19 maggio 2019 per il suo “60 years of music world tour”. Per ricordarlo, riproponiamo un’intervista concessa al nostro Ernesto Kieffer giusto dieci anni fa, in occasione del suo ritorno a Verona nel settembre 2010, in cui eseguì oltre alle “Suite Sergio Leone” e “Suite Giuseppe Tornatore”, alcuni brani in prima esecuzione, che non avevano mai trovato spazio in nessun disco.  

Maestro Morricone, l’Arena ormai è diventato per lei un luogo imprescindibile…

«Ho grandi ricordi legati al 2002, quando venni per la prima volta in Arena. In quell’occasione non proposi la musica del cinema, ma la mia musica sinfonica. Era per me un esperimento e andò bene. Venne accolto con entusiasmo». 

Fu un concerto che le portò fortuna, visto che da allora ad oggi il numero delle esibizioni dal vivo realizzate è aumentato esponenzialmente, rispetto al passato. Fra queste anche altre due apparizioni a Verona: nel 2004 e nel 2006.

«Quel consenso mi incoraggiò ad andare avanti su questa strada». 

Che cosa si augura per il prossimo concerto di settembre?

«Che il pubblico mi accetti e che lo spettacolo piaccia, così come in generale piaccia quello che faccio. Voglio servire il pubblico non in maniera passiva, ma attiva, cercando allo stesso tempo di essere anch’io soddisfatto dei risultati. Spero, dunque, che anche quest’anno il concerto venga accolto bene, nonostante non abbia la potenza di quel Voci dal Silenzio, che ebbe tanto successo nel 2004.»

Cosa la rende più felice? Dirigere un’orchestra o scrivere una partitura?

«Dirigere mi dà la possibilità di entrare in contatto con il pubblico ed è un’esperienza straordinaria. Però non lo baratterei con il piacere che mi dà la scrittura.»

E giocare a scacchi? (Morricone ne è un appassionato giocatore, ndr)

(Sorride, ndr) «Il gioco degli scacchi lo pratico per passione, ma non posso dire di essere bravo. Una volta, però, a Torino riuscii ad impattare una partita con Boris Spassky, uno dei più grandi giocatori di scacchi della storia. Fu per me una notevole soddisfazione.»

Tornando alla sua musica, come nasce una colonna sonora, indissolubilmente legata alle immagini? 

«Nasce dallo scambio continuo fra regista e compositore. Di sicuro i risultati migliori sono stati ottenuti quando il regista ha girato le scene del film dopo aver ricevuto la mia musica. In quel caso ha potuto assimilare la melodia, memorizzarla e amarla. Questo gli ha permesso di girare, di conseguenza, a ritmo. Quando, invece, è stata la musica a dover seguire le immagini si è snaturata la sua essenza e si è rischiato di creare qualcosa privo di anima.»

Ci può fare qualche esempio?

«C’è una scena in C’era una volta in America in cui Robert De Niro passa in rassegna alcune foto e comincia a ricordare alcuni episodi del passato. Quella scena, davvero magistrale, è stata girata seguendo la musica che avevo scritto e registrato in precedenza. Poi, però, Leone volle farmela registrare per raggiungere la sincronia perfetta con i movimenti dell’attore. A quel punto dovetti impazzire, cronometro alla mano, per creare in fondo qualcosa di diverso rispetto all’originale. Alla fine dissi a Sergio di riprendersi la composizione iniziale e di accontentarsi. Litigammo un po’, ma poi ebbi la meglio.»

A proposito, si può sicuramente dire che Lei è un compositore “fedele”. Oltre al sodalizio con Leone, si ricordano le lunghe collaborazioni con Elio Petri e Roland Joffè, solo per fare qualche esempio. Negli ultimi anni ha legato molto con Giuseppe Tornatore. Può descriverci il vostro legame?

«Con Tornatore ho realizzato nove film e un cortometraggio. In questi anni lui è cresciuto molto, diventando un regista un po’ più musicale. Questo permette fra noi uno scambio proficuo. Si dimostra più ricettivo quando gli propongo i brani ed è sicuramente molto chiaro quando deve darmi le sue indicazioni. Grazie al rapporto di fiducia che si è instaurato, ora so che con lui posso rischiare. E questo permette di cercare e sperimentare maggiormente rispetto a quanto fatto con altri registi.»

Dopo tutti questi anni e le centinaia di composizioni scritte, come riesce a trovare ancora la scintilla per essere così originale?

«La ricerca melodica va effettuata in modo da contrapporre i temi tradizionali a quelli nuovi in un mix che dovrebbe, alla fine, risultare efficace. È la contaminazione, spesso, a dare quel tocco di originalità alle mie musiche. E la semplicità, che permette di arrivare dritti al cuore delle persone. È per questo che ho lavorato su sonorità particolari utilizzando strumenti inusuali come il flauto o l’oboe, protagonisti della colonna sonora di Mission, o il fischio e la voce umana in C’era una volta il west. Non si finirebbe mai di trovare nuove soluzioni armoniche e melodiche.»

Qual è l’utilizzo che lei fa delle nuove tecnologie? Computer e sintetizzatori elettronici..

«Li utilizzo molto, anche se a dire il vero non lo faccio io direttamente, ma lo faccio fare al mio bravissimo collaboratore Fabio Venturi. Io sono letteralmente negato per la tecnologia. Quando arrivarono in commercio i primi sintetizzatori, me ne venne regalato uno costosissimo. Andai a lezioni per un intero anno dal Maestro Fugazza, uno dei massimi esperti. Alla fine mi arresi per manifesta incapacità. Allora decisi di avvalermi di fidi collaboratori che utilizzassero questi macchinari per me. Grazie alla tecnologia si può fare davvero qualsiasi cosa: si può lavorare sui timbri, sulla sincronia, sui rallentamenti e grazie a questi artifici si possono creare effetti davvero interessanti. Sarebbe un peccato non utilizzare queste possibilità, no?»

Registi cult come Quentin Tarantino e band rock internazionali come i Metallica, usano spesso la sua musica, attraverso un gioco continuo di citazioni e omaggi. Che effetto le fa, tutto questo?

«Sicuramente mi fa piacere, perché è l’ennesima conferma della bontà del mio lavoro. Però vedo, dietro questo utilizzo, anche un aspetto commerciale, che ovviamente mi piace meno. Diverso è il lavoro del sassofonista John Zorn che una volta tentò un’interessante operazione, stravolgendo letteralmente la mia opera, di cui ne utilizzò soltanto alcuni germi, e proponendo qualcosa di diverso. Apprezzai molto la sua performance e glielo dissi. Tutti gli altri, invece, credo sfruttino anche un po’ dell’orecchiabilità dei miei brani, che aiuta a determinare il successo di una performance o di un film.»

Ha individuato qualche possibile “erede” in Italia fra i compositori di colonne sonore?

«Nel nostro Paese ci sono bravissimi compositori, che scrivono i brani dall’inizio alla fine senza l’aiuto di nessuno. Penso a Carlo Crivelli o Franco Piersanti. Anche Nicola Piovani è molto bravo, ma forse non ha ancora avuto occasione di esprimersi al meglio. Sono sicuro che, in futuro, saprà affermarsi e mostrare al pubblico tutta la propria maestria.»