L’intermittence è il celebre sistema francese per garantire sostegno ai lavoratori dello spettacolo. Un sistema che, da sempre, crea tuttavia nel Paese anche profonde idiosincrasie tra la vocazione della Madre Francia a proteggere e valorizzare la cultura e l’arte e una visione del lavoro culturale sempre più orientata al profitto e alla sostenibilità economica delle imprese. Da sempre suscita invidia e ammirazione nei lavoratori dello spettacolo del resto d’Europa. Si tratta di un regime speciale che risale al 1936, nato per il cinema e che nel corso degli anni è stato esteso anche a teatro e tv. Sostanzialmente prevede che chi ha accumulato almeno 507 ore di lavoro in dodici mesi, con contratti a tempo determinato, possa accedere al sussidio di disoccupazione per la durata di altri dodici mesi. In pratica, è un sistema di protezione che prevede una sorta di “pensione” nei periodi di inattività che qualunque lavoratore dello spettacolo si trova a dover affrontare. Per il Medef (la Confindustria francese) è un “privilegio”, per la Corte dei Conti francese produce un deficit cronico che supera abbondantemente il miliardo di euro l’anno. Ed è costantemente messo in discussione dai vari governi, che da tempo non lo considerano più economicamente sostenibile.

Chi sono gli intermittents dello spettacolo che in Francia difendono con forza il loro regime e cosa chiedono? Di questo e altro abbiamo parlato con Maxime Sechaud, regista, scrittore, attore e sindacalista  francese, oltre che portavoce della Coordination des interluttants 59-62.

Qual è oggi la situazione dei lavoratori dello spettacolo in Francia, con la crisi conseguente alla pandemia di Covid-19?


Maxime Sechaud

«L'”intermittence” è un regime nato per garantire a professioni per loro natura discontinue (audiovisivi e spettacolo) una protezione sociale che gli garantisca gli stessi diritti di un lavoro continuativo (salario, previdenza sociale, congedi etc). Questo regime fu appunto inizialmente creato per il cinema e successivamente allargato ad altri mestieri del comparto culturale. E’ un sistema che si inscrive in seno a quello più ampio di sostegno alla disoccupazione francese, che notoriamente si basa sulla solidarietà inter-professionale. In pratica è un’indennità che ricevono i lavoratori intermittenti, una forma di salario aggiuntivo che garantisce continuità di salario. I dipendenti intermittenti contribuiscono sempre a questa indennità, e concretamente funziona così per tutti i lavoratori in Francia. Sono le condizioni di accesso e le tasse che variano e sono più accessibili per i lavori cosiddetti “intermittenti” precari. Secondo me è necessario vedere questo regime come una problematica sociale, e non culturale. Il concetto di cultura è troppo ampio e sfocato per definire quale “cultura” bisognerebbe o no proteggere. Ad esempio, io dirigo da 15 anni una compagnia che si chiama Théâtre de L’Ordinaire, e con la compagnia difendo un teatro popolare e internazionalista, e andiamo in scena soprattutto nelle campagne e nei quartieri popolari. Poi vorrei chiarire che non è assolutamente vero che produciamo un miliardo di euro di deficit l’anno, questa cifra è una menzogna politica e un’assurdità: nel 2014 gli intermittenti rappresentavano il 3,5% degli indennizzati dal sussidio di disoccupazione e toccavano il 3,3% delle indennità di disoccupazione. Diciamo che i governi non hanno mai fatto regali, ma non hanno nemmeno mai attaccato frontalmente il regime dell’intermittenza dopo il 2003. L’assicurazione contro la disoccupazione in Francia è una cassa paritaria, nel senso che è gestita congiuntamente dai sindacati dei lavoratori e dei datori di lavoro, ed è pagata con i contributi sociali dei lavoratori dipendenti e con gli oneri sociali dei datori di lavoro. Ogni due anni, le parti negoziano le modalità di redistribuzione di questa cassa. E’ dunque più in questo senso che ogni due anni l’intermittenza viene rimessa in discussione, e che il Medef diventa l’avversario politico diretto. Lo Stato è chiamato ad intervenire solo nel caso in cui non venga raggiunto alcun accordo diretto tra le due parti. Infine, la situazione in Francia per i lavoratori dello spettacolo rimane molto complicata, come nel resto del mondo d’altronde. Ancor prima del lockdown siamo stati il primo settore toccato, perché gli assembramenti di più di 100 persone sono stati immediatamente vietati, quindi dall’inizio di marzo le sale per gli spettacoli sono chiuse, così come le produzioni. Dalla fine del lockdown, nessun protocollo sanitario è stato proposto al nostro settore per la ripresa del lavoro. E se è vero che un certo numero di spettacoli di strada ricominciano a vedere la luce in situazioni sanitarie incerte, rimane molto complicato sapere in quali condizioni si potrà riprendere a lavorare rispettando le regole. Per le repliche o per le produzioni cinematografiche questo aspetto sembra affidato alla buona volontà del datore di lavoro. Il che è un problema, nel momento in cui sappiamo che molti artisti potrebbero mettere a repentaglio la loro salute per paura di perdere un lavoro già molto precario. Chiaro, qualcuno comincia a riprendere il proprio percorso professionale, ma in condizioni molto incerte e senza una posizione comune del nostro settore. Di conseguenza, un certo numero di lavoratori dipendenti e di compagnie indipendenti si sono visti piombare in una situazione di estrema precarietà. I quattro mesi di pausa forzata hanno fatto perdere agli intermittenti dello spettacoli un certo numero di ore di lavoro, sicché per qualcuno a partire dal primo luglio il rischio è di finire nell’RSA (l’indennità minima percepita in Francia e che ammonta a circa 400 euro). Senza contare il fatto che se un certo numero di teatri e luoghi di spettacolo recupereranno gli spettacoli che erano in programma durante il lockdown, ci sarà una sorta di “imbottigliamento” che si creerà con quelli programmati per la prossima stagione. Per questo motivo, i sindacati francesi dello spettacolo e della cultura, così come i coordinamenti di intermittenti, disoccupati e precari chiedono un anno “bianco”. Un anno, oppure il tempo durante il quale uno non ha potuto lavorare, più 12 mesi in cui possa beneficiare della sua indennità. Il tempo necessario a che l’economia del nostro settore possa riprendere il suo corso “normale” e assicurare una protezione sociale ai lavoratori più precari. Al momento il governo si è detto favorevole a queste rivendicazioni pur restando molto vago sulla loro applicazione concreta. Il che inquieta non poco i militanti del movimento. Oltretutto le nostre rivendicazioni si estendono all’insieme dei lavoratori, mentre il governo tenta il gioco della divisione, ascoltando gli intermittenti e non gli altri disoccupati.»

Nel 2014 il movimento di protesta degli intermittents dello spettacolo ha bloccato l’inaugurazione del Festival del teatro di Avignone, eventi importanti come il Festival d’Operà di Aix-en-provence e Printemps des Comédiens di Montpellier sono stati accompagnati da imponenti scioperi dei lavoratori. All’epoca, la riforma del governo in carica puntava all’abbassamento dei costi del lavoro, ma anche all’aumento delle ore lavorative e alla restrizione nell’accesso e nella percezione dei sussidi sociali.

Tu eri uno dei leader del movimento e ti trovavi ad Avignone in quei giorni. Che cosa esattamente fece esplodere le proteste dei lavoratori dello spettacolo contro il governo e come andò a finire?
«L’assicurazione contro la disoccupazione, come dicevamo, è gestita in maniera paritaria dai sindacati dei lavoratori e dei datori di lavoro, che sono chiamati a firmare una convenzione tra le parti. La prima battaglia fu dunque contro il Medef, che all’epoca inaugurò la negoziazione chiedendo di abolire il regime dell’intermittenza. Gli intermittenti quindi si mobilitarono molto rapidamente, creando un rapporto di forza che accompagnò poi tutti i negoziati. A quel punto, il Medef fece marcia indietro sulla questione. Ma siamo stati traditi da un certo numero di sindacati social-democratici dei lavoratori che non hanno ascoltato le rivendicazioni degli intermittenti e dei disoccupati, e fu firmata una convenzione (solo la CGT si astenne e non firmò) che presentava molti svantaggi per noi. Ma l’allora governo socialista in carica aveva il potere di non firmare e retificare l’accordo, così abbiamo cercato di mettere sotto pressione il Ministero del Lavoro e il Partito socialista al potere, in particolare con manifestazioni, blocchi e soprattutto un discreto numero di grandi scioperi in occasione di eventi importanti come il festival Printemps des Comèdien a Montpellier. Nel nord del paese eravamo più mobilitati che mai e durante l’estate abbiamo lavorato ad un grande sciopero per tentare di annullare mega eventi come il Festival di Avignone. Tuttavia, importanti divergenze strategiche, e in particolare l’esca del Primo ministro per metterci attorno ad un tavolo, hanno poco a poco sgretolato il movimento. Infine solo nel 2016, nel corso di un’altra lotta sociale sulla riforma generale del codice del lavoro, le rivendicazioni degli intermittenti sono state ascoltate, in particolare per quanto riguarda il ritorno ai 12 mesi di indennità come prima del 2003.»

Come è organizzato un movimento che raccoglie migliaia di partecipanti e quanto peso hanno, nel dialogo col governo, la compattezza e i numeri di questo movimento?
«È un movimento piuttosto spontaneo e direi un po’ “doppio”. In primo luogo c’è il lavoro sindacale, incluso quello della CGT (ma anche di altre sigle sindacali che rappresentano il nostro settore) che opera in modo tale che sui luoghi di lavoro vengano messi in atto gli scioperi, e sono in prima linea nei negoziati congiunti sull’assicurazione contro la disoccupazione. Poi ci sono i cosiddetti coordinamenti delle lotte (i CIP: coordinamenti dei disoccupati intermittenti e dei precari) che si incontrano regione per regione e cercano di svolgere un lavoro comune a livello nazionale attraverso i coordinamenti ogni due settimane, in particolare per stabilire un calendario comune e richieste comuni. Ma la forza del movimento era la sua spontaneità e i suoi possibili effetti a sorpresa. Il suo punto debole era invece che le mobilitazioni erano molto diverse a seconda delle regioni e il nord, forse per la sua forte tradizione operaia e di sinistra, era in prima linea nella mobilitazione, contrariamente ad altre regioni nelle quali il tasso di partecipazione era piuttosto basso. Ma la cosa più interessante secondo me nel nord fu la capacità di attivisti sindacalizzati e non sindacalizzati, molto diversi tra loro, di allearsi su un argomento senza lotte tra bande. La capacità del nostro settore di fare numero e di esprimersi facilmente nello spazio pubblico, grazie alla nostra professione, ha sempre spaventato i governi. Rimango convinto che abbiamo una vera forza politica sottovalutata dai miei compagni nel mio settore. Potremmo andare ancora più lontano nelle nostre rivendicazioni e nella costruzione di un grande movimento sociale.»

Che rapporto esiste in Francia tra le diverse categorie di lavoratori dello spettacolo?
«Questo dipende molto dal settore di cui parliamo. Per esempio, in una compagnia teatrale i mestieri si mescolano molto perchè la struttura è più a « misura umana » diciamo. Regista e attore sono sullo stesso piano, e spesso i rapporti personali si mescolano a quelli professionali. In realtà più grandi i rapporti sono certamente più gerarchizzati e non per forza una squadra tecnica ha rapporti con la squadra artistica. Nelle produzioni cinematografiche questa gerarchia è ancor più forte, per esempio.»

Che tipo di rapporto ha il movimento degli intermittents con la CGT, il principale sindacato francese?
«La CGT è una confederazione di sindacati. Al suo interno vi sono dunque federazioni diverse di cui la CGT Spettacolo raggruppa i diversi sindacati di settore. La CGT svolge un lavoro notevole sul piano delle negoziazioni per l’assicurazione contro al disoccupazione ad esempio, o sulla produzione di competenze tecniche riguardo alle nostre professioni. Senza dubbio, la CGT rimane un alleato importante e non ha mai tradito la causa degli intermittenti. Tuttavia, a differenza della sua origine, rimane una struttura inflessibile e molto piramidale. Ci sono pochi spazi per gli attivisti di base che non sono invitati a costruire una vera vita sindacale e quindi a far parte della lotta a lungo termine. Trovo che il settore dello spettacolo della CGT si presenti un po ‘troppo come fornitore di servizi (probabilmente senza vederlo). Paghi la tua quota e noi ti difendiamo. Ma sarebbe necessario ripensare il sindacalismo come luogo di autodifesa dei lavoratori, come strumento per l’educazione dei lavoratori e per le lotte sul campo. Nel complesso, la CGT fa parte del movimento intermittente. Ma come sindacalista trovo che le manchi di attivismo vero e proprio,  e che il suo funzionamento interno sia in qualche modo tenuto a freno per garantirsi un maggiore adesione. Tutto ciò non toglie che, sulla riforma, la CGT sia il solo soggetto sul quale gli intermittenti possano contare. I lavoratori se ne rendono conto, infatti durante il lockdown sono raddoppiate le adesioni.»

Che cosa chiedono oggi i lavoratori dello spettacolo francesi al governo, al Medef e alla CGT?
«I lavoratori non chiedono nulla al Medef. La lotta oggi non si basa sulle questioni dell’Unédic (ente costituito da un egual numero di rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro, che gestisce l’assicurazione contro la disoccupazione in Francia,  consiglia le parti sociali che ne negoziano le regole e si assicura che le loro decisioni vengano applicate, nda). Le rivendicazioni dei coordinamenti di intermittenti, disoccupati e precari mirano ad un anno bianco, a condizioni di accesso al regime di protezione degli intermittenti basate su 250 ore a seguito del lockdown, ad integrazioni economiche al bilancio destinato alla cultura per alleviare gli effetti della crisi sui lavoratori e rilanciare l’intero comparto. Ma soprattutto si mira ad una riflessione più ampia e generale sulla politica culturale.»

Avignon Festival&Compagnies, associazione collegiale che coordina e struttura il Festival OFF di Avignone, porta avanti da quattro anni un progetto che mira a regolarizzare il festival, riducendo le ineguaglianze e favorendo una maggiore professionalizzazione. In occasione dell’edizione di quest’anno, l’associazione ha indetto una grande consultazione pubblica accessibile fino al 15 giugno e che rappresenta la prima tappa di un vasto processo di riflessione collettiva. Successivamente le risposte alla consultazione verranno sintetizzate in una decina di tematiche che costituiranno una base per la ripartenza. Cosa pensi di questo progetto?
«A essere onesto, non ne penso granché di buono. Per me Avignone è il grande mercato dello spettacolo dal vivo, ma non ci vedo dietro nulla di interessante dal punto di vista politico. Gli artisti e le compagnie dovrebbero piuttosto interrogarsi sul senso profondo del loro mestiere. A che pubblico si rivolgono? Per chi producono le loro opere? E perché produrle? E qual è il senso della diffusione delle opere? Io sono favorevole ad una ristrutturazione su scala più locale, e ad un lavoro artistico che integri maggiormente gli abitanti dei luoghi e il pubblico nei processi artistici.»

C’è qualcosa che vuoi dire ai lavoratori italiani dello spettacolo che iniziano ora un percorso di rivendicazioni delle tutele necessarie al loro settore?
«Io credo fermamente che noi lavoratori dello spettacolo siamo uguali a tutti gli altri lavoratori di settori diversi, e che l’obiettivo nella lotta per i diritti sul lavoro debba inserirsi in un quadro che comprenda tutti i lavoratori.  Così come resto convinto che si debba puntare ad un grande sciopero generale. Chiaro che costruire una lotta comune in questo contesto è molto difficile. Credo sia necessario creare le condizioni per potersi organizzare localmente con assemblee generali dei lavoratori, perché agire localmente significa bypassare la burocrazia del sindacato e poter essere più efficaci e incisivi nelle azioni, quantomeno in quelle simboliche, in attesa di riuscire a creare ad un livello più esteso rapporti di forza più a lungo termine. E’ la prima volta che, nel mondo intero, la gente non può lavorare. Dovremmo approfittare di questo contesto per unirci al di là delle frontiere, cominciare a pensare ad azioni comuni che farebbero molto più rumore di azioni geograficamente delimitate. Perché ad esempio non pensare ad uno statuto europeo per artisti e lavoratori dello spettacolo?»