Molti critici, con varie interpretazioni, si sono impegnati a spiegare perché Ugo Foscolo nel carme “Dei Sepolcri” definisca il sommo Poeta Dante Ghibellin Fuggiasco. Tutti (o quasi) sappiamo che Dante era guelfo, ma di parte bianca. I guelfi, sostenitori dell’Autorità Papale si contrapponevamo inizialmente ai ghibellini, che invece si appoggiavano all’imperatore. Alla fine prevalsero i guelfi, che però a loro volta si divisero in bianchi e neri, due fazioni i cui conflitti insanguinarono la Firenze del secondo Duecento, fino alla finale supremazia dei neri.

C’è da meravigliarsi se anche Foscolo cadde in errore scambiando Dante, guelfo bianco, per un ghibellino? La tradizionale litigiosità italiana finisce per confondere le acque al punto che non ci si raccapezza più. Eppure quelle lontane vicende hanno, se ben consideriamo, un che di familiare, perché a ricordarle non sembra di parlare della fine del XIII secolo, ma dell’inizio del XXI. In questi giorni, infatti, stiamo assistendo a scontri continui fra politici, un intollerabile anacronistico teatrino di personaggi impegnati a dirsene e darsene di santa ragione.

Non è di questo che abbiamo bisogno. Questi comportamenti alimentano il qualunquismo e la superficialità di chi vede nella democrazia un regime ormai alla fine. Quanto sembrano invece più opportune e sagge le posizioni di coloro che sottolineano la necessità di una attenta azione di studio, ricerca e applicazione di soluzioni praticabili, per il ripristino di una nuova normalità, le caratteristiche della quale sembrano all’apparenza chiare, ma sono in realtà difficilissime da disegnare.

Marco Bentivogli in un intervento incisivo su Il Foglio di sabato 2 maggio osservava, fra l’altro, come le innovazioni più forti nascano da fattori di discontinuità e citava un famoso libro, Armi, acciaio e malattie, di Jared Diamond (Einaudi 1997), la cui lettura sembra particolarmente utile in questo periodo. Ebbene, sarebbe davvero auspicabile che la prima fondamentale discontinuità avvenisse fra una politica finalizzata agli interessi di parte e una azione di sistema invece finalmente indirizzata al bene comune. Le scelte che dovremo fare per riprendere il cammino della nostra vita interrotta richiederanno il massimo della condivisione e della consapevolezza che ogni scelta comporterà dei rischi. Per questo non possiamo continuamente rinfacciarci di avere sbagliato. Nessuno ha soluzioni sicure in tasca. Bisogna ipotizzare scenari, elaborare visioni, disegnare assetti per discuterne insieme e affrontare il rischio uniti.

Soprattutto in un settore delicato come la Scuola, che in questo periodo sembra, più di ogni altro settore, terreno continuo di scontro. D’altronde non è difficile capire perché. La domanda che tutti si fanno è: potremo riprendere l’attività ordinaria in un unico edificio, suddiviso in aule non sempre adeguatamente spaziose? Potranno ri-trovarsi nuovamente a vivere insieme per diverse ore decine, centinaia e, in qualche, caso migliaia di ragazzi (nella mia città c’è un edificio che accoglie più di 1500 studenti)?

Il Politecnico di Torino qualche giorno fa ha dato forma a un pensiero che non pochi di noi avevano (sommessamente e nascostamente) concepito, ovvero istituire una turnazione bisettimanale degli studenti. Come dire: se una edificio ospita 500 studenti, 250 frequente­ranno in presenza le prime due settimane del mese, gli altri le seconde. In tal modo la DaD (Didattica a Distanza) diventerà un metodo ordinario di lavoro integrato con la DiP (Didattica in Presenza). Va da sé che questa soluzione richiede pensiero, progettualità, supporti tecno­logici di qualità e notevole capacità organizzativa. Insomma si attuerebbe anche nella scuola il metodo di lavoro già utilizzato per la formazione degli adulti definito “blended” che altro non vuol dire che “misto”.

Ora è evidente che questa impostazione può andar bene per i ragazzi delle superiori, forse anche per quelli della secondaria di primo grado, ma di certo comporta problemi per la primaria e l’infanzia. Per questi allievi si tratterà di trovare altre soluzioni. Ora, Comuni, Comunità montane, Parrocchie, associazioni varie sono chiamate a un impegno che ricorda quello dell’immediato secondo dopo guerra. Un impegno enorme per sostenere il quale nessuno ha il cilindro magico. Ci sono soluzioni diverse che dividere i bambini di uno stesso quartiere  o di uno stesso paese in molteplici strutture? Qual è l’alternativa? Certo: tutti noi dobbiamo esprimerci con pensieri alti e strategiche visioni di futuro, ma il futuro è domani mattina e si chiama 1 settembre. Dobbiamo trovare una soluzione senza se, senza ma e sapendo che ognuno può perdere la faccia nel fare una proposta, ma che il silenzio e l’aggressione politica fanno perdere oltre che la faccia anche la stima e la credibilità.

Da questa difficilissima situazione in ogni caso, cessata l’emergenza, dovrà uscire una linea d’azione, politico-amministrativa nuova, che delinei nuove condizioni di vita per la nostra scuola. Cerco, in estrema sintesi, di riassumere alcuni punti fondamentali di questa nuuovo corso:

  1. l’Autonomia Scolastica non dovrà più essere solo la formula con la quale Ministero e Uffici Scolastici Regionali scaricano sulle scuole responsabilità che non sanno assu­mersi. Da domani in poi, saranno le scuole a garantire i 200 giorni di attività, secondo la loro progettualità. Certamente: è necessario evitare l’arlecchino dei calendari con un coordinamento regionale, ma è pur vero che l’organizzazione del tempo “dato” è e deve restare in capo alla scuola (il DPR 275/99 è in questo senso chiarissimo). Nessuno dice che i 200 giorni non possano essere blended non solo far le due modalità di didattica, ma anche con altre forme ormai imprescindibili di attività educativa, come ad esempio l’alternanza scuola lavoro, che, specialmente per le scuole tecniche e professionali, dovrà potersi estendere ben oltre (dove possibile e sostenibile) il limite inizial­mente fissato. Abbiamo il modello degli ITS che sta funzionando benissimo, prendiamo ispirazione da quella esperienza e valorizziamola integralmente anche nel sistema dell’istru­zione secondaria di secondo grado. I Licei decideranno per altre forme di impegno “extra”, ma lo faranno in autonomia, senza vincoli. Ogni scuola deve essere chiamata alla proposta e non all’obbligo. In tale prospettiva acquisterà un significato concreto il concetto di “Piano dell’Offerta Formativa” (cosa peraltro che già in molte positive realtà avviene, e non solo nel Nord);
  2. la scuola e la società civile non sono due realtà separate: finiamola una buona volta di dire che la scuola è il futuro del paese. Il futuro sono gli allievi. La scuola è il presente e un presente che non ammette giustificazioni. La scuola ha negli allievi il suo fine, ma è fatta di tante cose. La scuola è il più formidabile paradigma della complessità e non tollera semplificazioni. Quindi organizzare la scuola significa dare agli allievi una fondamentale lezione di quella materia che non si insegna a prediche e non si impara a memoria, ma si deve vivere, ovvero quella “Cittadinanza e Costituzione” che i giovani studiano nel comportamento degli adulti e delle istituzioni che essi gestiscono. Quindi bisogna iniziare da subito una politica di acquisizione di edifici, ambienti, spazi dove attivare una fase iniziale di ritorno adeguato alle cautele sanitarie prospettate dagli esperti, senza dire subito che “non si può”. Tutti dobbiamo cercare soluzioni; spremendo le meningi, le soluzioni possibili e poi anche quelle impossibili saltano fuori, come sanno bene i Capi d’Istituto. Sarebbe il caso di ascoltarli, una buona volta;
  3. la DaD ha posto in evidenza l’obsolescenza intollerabile di molte nostre “costellazioni di sapere” e l’esigenza di strumenti culturali e scientifici totalmente innovativi per insegnare discipline come Storia, Geografia, Scienze, Matematica, Lingue straniere moderne e persino le Lingue classiche. Se le Università non sapranno farsi carico di questo gigantesco inevitabile processo di rinnovamento epistemologico, metodologico e culturale, assisteremo nei prossimi anni a una progressiva decadenza dei sistemi scolastici, i quali non potranno più continuare con le metodologie precedenti e non saranno in grado, per ovvi motivi, di fronteggiare una trasformazione che è epocale, è già in atto e richiede non solo buon senso, buona volontà e impegno, ma ricerca, studio, sperimentazione, applicazioni pilota e “messe a regime”.
  4. Infine va radicalmente trasformata l’amministrazione scolastica, che continua a guardare alla scuola come se fosse una realtà separata da essa. Deve nascere una amministrazione scolastica unica, con carriere certamente differenziate, ma con processi esperienziali osmotici. Non entro in dettagli che sarebbero incomprensibili anche a un lettore esperto, ma posso assicurare che una delle ragioni dei ritardi nella organizzazione scolastica è questa separazione insensata, anacronistica e vera solo sulla carta, fra provveditori e presidi, fra ispettori e dirigenti amministrativi, fra personale ATA e impiegati ministeriali. Non parliamo poi dell’utilizzo insensato e penalizzante dei docenti (molto spesso dediti al compito su base volontaria) per aspetti organizzativi, quando andrebbero introdotte specifiche figure di sistema totalmente nuove, sulle quali possa davvero contare il Dirigente Scolastico, oggi di fatto pateticamente e solitariamente collocato in una posizione dirigenziale che non prevede struttura tecnica di supporto.

Ebbene: che la pandemia ci aiuti a recuperare mente e cuore, perché di questo hanno bisogno la scuola e la nostra società civile, se non vogliamo arretrare di anni e tornare alle logiche della forza, della prevaricazione e del diritto fondato sul privilegio. Nella scuola ha le sue radici la democrazia. Nella scuola si fonda quella che gli esperti chiamano “economia della conoscenza”, e quindi la piena valorizzazione del lavoro, su cui è fondata la Repubblica Democratica che abitiamo. Senza scuola, lo abbiamo constatato, non c’è autentica vita sociale.

* Ex Dirigente Scolastico Provinciale di Verona, esperto di sistemi educativi.