Oggi voliamo, virtualmente, in Australia a incontrare il veronese Massimiliano Gugole, che ormai da cinque anni vive “down under”, e ci racconta come gli australiani stanno affrontando la pandemia e come lui, da italiano all’estero, stia vivendo la situazione italiana.

Max Gugole

«In passato ho fatto (quasi) di tutto – racconta Massimiliano, Max per gli amici – e cinque anni e un mese fa ho fatto il grande passo di trasferirmi in Australia. Per essere coerente con la mia incoerenza professionale ho iniziato poco dopo a lavorare sui treni a lunga percorrenza che da Adelaide (dove vivo) vanno a Sydney, Perth, Darwin. Praticamente attraverso il continente un paio di volte al mese. Attraversavo, dovrei dire, visto che in conseguenza del Coronavirus i confini statali sono stati chiusi. Il mio lavoro, quindi, è tecnicamente impossibile – oltre che rischioso, chiaramente – e di conseguenza da circa tre settimane sono disoccupato, come milioni di altri australiani, e non solo.
Non credo di essere solo in questo, ho da un po’ di tempo smesso di seguire le statistiche di vittime e contagiati. Qui in Australia comunque i numeri sono modesti, le vittime alcune decine, quindi una situazione molto diversa da quella italiana. Comunque i confini sono di fatto chiusi, i voli sono quasi tutti cancellati e gli ospedali si sono organizzati per fare fronte ad un’eventuale emergenza. Passo ogni giorno davanti alla clinica Covid-19 di uno dei maggiori ospedali della città e c’è sempre una lunga fila di persone in attesa di essere visitate.»

Quali sono le restrizioni imposte del governo per limitare la diffusione del virus? Gli australiani come vivono queste imposizioni?
«Le limitazioni sono meno restrittive che altrove, in confronto all’Italia per esempio o anche alla vicina Nuova Zelanda. Viene richiesto di mantenere una distanza di almeno un metro e mezzo dalle altre persone, evitando il contatto fisico. In generale si consiglia di uscire di casa solo per spostamenti essenziali, viene inoltre limitato l’accesso ai negozi per non creare assembramenti; ad esempio, prima di Pasqua si formavano lunghe file all’esterno dei negozi di cioccolato. Mi sembra che in generale le regole vengano rispettate, gli australiani amano le regole e sono piuttosto rigorosi nell’imporle, anche in condizioni meno estreme di quelle che stiamo vivendo. Non mi sembra che la popolazione abbia manifestato grosse reazioni emotive al momento: le restrizioni qui sono meno soffocanti rispetto all’Europa, si può ancora fare una passeggiata lungo la spiaggia o fare sport da soli, sempre nel rispetto di alcune regole, chiaramente. Credo che agli australiani manchino soprattutto i pub, che, un po’ come per gli inglesi, sono per molti luogo di ritrovo irrinunciabili. E le palestre e i ristoranti, naturalmente. Ma la disciplina viene mantenuta. Si sta ora iniziando a parlare dell’app per tracciare i movimenti, come strumento per evitare la diffusione del Coronavirus. Su questo tema le reazioni che ho sentito sono prevalentemente negative e penso sarà difficile che l’australiano medio accetterà di essere controllato dallo stato. Anche se poi sappiamo che ci sono mille altri modi per farlo, ma questa è un’altra storia.»

Foto di Sarah Baldo

In Australia esiste una tutela sufficiente sia dal punto di vista medico che in termini di supporto economico per la perdita del lavoro conseguente alla pandemia?
«Il governo ha predisposto delle misure di sostegno per diversi miliardi di dollari. Le principali si chiamano “Jobseeker” e “Jobkeeper”. Mentre la prima è per chi è disoccupato, la seconda si rivolge a coloro che sono stati licenziati specificamente in conseguenza del Coronavirus. Per circa 6 mesi, sperando che la crisi si risolva prima, il governo, tramite il datore di lavoro, verserà circa 3.000 dollari al mese, per mantenere il collegamento tra datore di lavoro e dipendente, in modo da favorire una ripresa immediata, appena la situazione lo consentirà. Personalmente, essendo io residente permanente a un passo dalla cittadinanza, l’assistenza medica ed economica che ricevo è pari a quella di un australiano, quindi di sicuro ci sono posti peggiori dove essere. Nonostante ci siano molte strutture sanitarie private, quelle pubbliche sembrano essere piuttosto efficienti.»

Foto di Sarah Baldo.

Come viene percepita in Australia la pandemia all’estero? E tu, come stai vivendo la situazione italiana?
«Il turismo in Australia è di fatto necessariamente bloccato. La Tasmania è stata il primo stato a chiudere i confini; inizialmente pensavo fosse solo perchè essendo una piccola isola avesse effettivamente necessità di proteggersi da eventuali contagi dal continente. Poi però il Territorio del Nord (dove si trova il monolite Uluru) ha fatto lo stesso, poi l’Australia Meridionale dove abito e a seguire gli altri. I voli internazionali sono al minimo, e sono utilizzati fondamentalmente per i rimpatri.
I contagi sono arrivati principalmente dall’estero e, quindi, l’Australia vede con sospetto e preoccupazione quello che sta succedendo. La prima domanda che fanno per accedere a uffici pubblici, cliniche, è se sei stato all’estero negli ultimi 14 giorni. In molti, essendo io italiano, mi chiedono come sta la mia famiglia. Naturalmente sono preoccupato per loro, specie per i miei genitori, che sono anziani. Per fortuna, tutto bene per ora. Poi loro già uscivano poco prima, figuriamoci adesso. Sono molto dispiaciuto di quello che l’Italia sta passando.
Naturalmente questo stile di vita diverso, seppure imposto, ha avuto anche delle conseguenze positive. Spero però che l’emergenza passi comunque al più presto e che si possa ricordare questo periodo, nei suoi lati negativi ma in anche quelli positivi, e che il nostro stile di vita post Covid-19 possa essere un giusto compromesso.»

Foto di Sarah Baldo.

Ritieni che, alla fine della pandemia, le persone ne usciranno cambiate in qualche modo? Che lezione ti piacerebbe che imparassimo come esseri umani?
«Mi piacerebbe che il mondo ne uscisse diverso, ma non so se accadrà. C’è davvero molto da imparare, dal concedere uno spazio maggiore agli altri animali che abitano il pianeta al riconoscere l’importanza della qualità dell’aria, al trascorrere il tempo più lentamente e in compagnia di persone e attività più scelte, al dedicare tempo alla riflessione…
Ricordo il finale epico di una superlativa serie tv britannica, Planet Earth 2: Sir David Attenborough dall’alto di uno dei grattacieli più celebri di Londra si chiedeva “Non è possibile costruire città più in armonia con la natura? Guardando questa grande metropoli dall’alto, l’ingegnosità con la quale continuiamo a modificare la forma del nostro pianeta è impressionante. Ma è anche motivo di riflessione. Ci ricorda di come sia facile per noi perdere la nostra connessione con il mondo naturale. Ma è da questa connessione che dipende il futuro sia dell’umanità sia del mondo naturale. È di certo nostra responsabilità fare tutto quello che possiamo per creare un pianeta che offra una casa non solo per noi, ma per tutta la vita sulla terra.” Ecco, se solo si imparasse questo dall’esperienza del Coronavirus.»