Se c’è una cosa che a questo punto della pandemia possiamo dire di aver appreso, è che il virus Covid-19 agisce con molta più razionalità della politica e della società.

Il 7 febbraio scorso, Michele Mirabella prestava il suo volto a uno spot del Ministero della Salute nel quale si asseriva che “non era affatto facile” contagiarsi con il coronavirus, purché si rispettassero elementari norme igieniche. Il fine dello spot era ovviamente quello di rassicurare la popolazione e invitarla a continuare a vivere normalmente.

Il 28 febbraio da Bergamo, ora diventata la Terra di Mordor dei contagi, partiva la campagna #Bergamononsiferma, in risposta alle voci che da più parti chiedevano misure più restrittive per contenere l’epidemia che cominciava a delinearsi nella sua gravità. Lo stesso leader dell’opposizione Matteo Salvini con un video postato sui social il 27 febbraio chiedeva testualmente di “riaprire tutto”, quindi di superare anche le blande misure di contenimento dell’epidemia che fino a quel momento erano state adottate, per far ripartire l’economia e quindi la vita come se nulla fosse.

Neppure andava meglio tra le amministrazioni locali. Il governatore del Veneto Luca Zaia il 28 febbraio, ligio all’editto via Tweet del suo leader di partito del giorno precedente, chiedeva a gran voce di riaprire le scuole, lamentandosi che il governo non glielo consentiva. Ricordiamo, poi, la sua reazione contrariata all’istituzione delle prime “zone rosse” il 7 marzo e le sue proteste affinché le province di Padova, Treviso e Venezia non ne fossero incluse. Verona, almeno fino al 9 marzo, un attimo prima che scattasse il primo “lockdown” nazionale, vedeva la sua amministrazione impegnata in una campagna che invitava i cittadini a frequentare maggiormente il centro storico per lo shopping e far girare, così, l’economia, offrendo loro posteggi gratuiti con relative foto di amministratori sorridenti mentre tengono in mano la locandina dell’evento.

Luca Zaia presenta le inutili mascherine targate Regione Veneto

Come sia andata lo sappiamo purtroppo dal bollettino di guerra che ogni giorno ci informa delle centinaia di vittime e delle migliaia di contagi. A Verona, in particolare, i casi di coronavirus stanno aumentando di giorno in giorno, con una progressione che la porterà presto a essere la provincia del Veneto con più infetti. E non è certo un mistero che i casi che si rilevano in questi giorni possano essere in buona parte causati anche dai messaggi che l’amministrazione ha lanciato e che hanno indotto la cittadinanza a proseguire come se niente fosse la propria vita sociale, con conseguenze deleterie. Ora si sta correndo precipitosamente ai ripari tra grida di dolore e richieste di provvedimenti sempre più restrittivi. In questi giorni, fra l’altro, abbiamo visto il Sindaco Federico Sboarina emettere ordinanze che vietano l’attività sportiva all’aperto, tuonando contro i comportamenti poco virtuosi dei suoi concittadini (prendendosela, in particolare, con i runner), riparato durante le conferenze stampa da una mascherina che gli lasciava scoperto il naso, dimostrando così di avere un’idea piuttosto approssimativa di cosa siano le “vie respiratorie”.

Il Sindaco di Verona, Federico Sboarina

Il contrasto tra la progressione di raggelante perfezione matematica del virus e l’incertezza con la quale la politica cerca di farvi fronte è piuttosto stridente. Zaia, messa definitivamente nell’armadio la divisa da pompiere con la quale inizialmente ha affrontato l’emergenza,  lancia la proposta di fare tamponi a tutta la popolazione del Veneto, cioè più o meno a 5 milioni di persone. Proposta efficace in cluster di piccole dimensioni, ma inattuabile su di una scala estesa all’intera regione. Anche se i laboratori di analisi garantissero l’esecuzione di 30.000 esami al giorno (e al momento siamo sull’ordine dei 3.300 al giorno, non di più), ci vorrebbero circa sei mesi per analizzare tutto il Veneto e si rischierebbe che un soggetto negativo al prelievo si contagi finché aspetta i risultati. Siamo di fronte al cosiddetto “metodo Zaia” alla sua massima espressione, ovvero propaganda sui media a cui poi costantemente non seguono azioni concrete.

Il cuore della questione pare essere l’assoluta incapacità della politica di prendere decisioni che non si traducano in un immediato ritorno in termini di consenso. La politica, che nell’epoca dei social si misura in numero di “like” ricevuti, ormai è talmente assuefatta alla droga del consenso immediato ad ogni costo che non riesce più a concepire un orizzonte temporale che abbia una durata superiore a quella di un post su Facebook o Twitter. Abbondano i capi, ma non ci sono veri leader. Questo spiega anche le caratteristiche effimere del consenso della politica 2.0, che si traducono in un’estrema volatilità delle preferenze che velocemente migrano di capo popolo in capo popolo. Ecco allora che nella prima fase dell’emergenza, quando i suoi contorni pur non essendo completamente a fuoco erano ormai chiaramente comprensibili, per evitare misure che potevano risultare impopolari presso un’opinione pubblica che, inconsapevole della gravità della situazione, le avrebbe mal tollerate, dalla politica è partito il messaggio della normalità ad ogni costo.

Con risvolti paradossali tipo quello di Nicola Zingaretti che prima posta sui social una foto dove solleva il calice in un brindisi che è quasi un rito di esorcismo del virus e poi sempre via social dichiara di esserne stato contagiato. Poi, sull’onda della comprensibile isteria di massa esplosa dall’aumentare esponenziale dei contagi e del numero dei decessi, ha continuato ad assecondare il “comune sentire” collettivo che a quel punto chiedeva rigore e soprattutto un colpevole, l’untore, una figura costante in tutte le epidemie. Così la politica, abdicando alla sua funzione di guida, si è messa ad assecondare ancora una volta il sentimento della massa. Si chiede di “chiudere tutto”, quando uno stop completo alle attività produttive nel giro di pochi giorni costringerebbe al blocco tutta la filiera dell’approvvigionamento alimentare, la quale dipende non solo da campi agricoli e allevamenti ma anche, per esempio, dall’industria degli imballaggi e dei confezionamenti. Si da la caccia all’untore che la massa ha individuata in chi fa sport all’aperto, pur rispettando le regole, perché un colpevole deve sempre esserci. Il parossismo nel voler evitare gli assembramenti – che si erano incoraggiati fino a due settimane fa – arriva al punto tale da emettere provvedimenti controproducenti, come ha fatto Zaia che ha annunciato il sabato che la domenica i supermercati sarebbero stati chiusi, causando negli store l’affollamento da parte di chi, colto di sorpresa, si è precipitato a far provviste. Altri provvedimenti risultano addirittura privi di senso logico, come quello che limita l’orario di apertura dei supermercati, come se per diminuire gli affollamenti bastasse ridurre le ore di apertura, quando è evidente che si sortisce un effetto contrario perché si porta lo stesso numero di utenti ad affollarsi in un lasso di tempo minore. Cosa sconsigliata pure da un illustre virologo come il professor Galli.

Perfino a Palazzo Chigi appare succube degli umori della piazza (virtuale). Giuseppe Conte sembra avere una strategia comunicativa basata sul contatto diretto con la Nazione, con modalità talvolta quasi da rockstar che si fa attendere sul palco, vedi ieri notte quando il suo intervento è iniziato in ritardo rispetto a quanto annunciato. Tuttavia questa strategia mostra evidenti limiti nel momento in cui il premier annuncia provvedimenti gravi, come l’istituzione delle prime zone rosse in nord Italia l’8 marzo scorso, senza che sia ancora predisposto il relativo decreto. Circostanza che ha scatenato una fuga di massa verso il sud che potrebbe essere stata foriera di contagi nelle regioni meridionali, che fra l’altro presentano strutture sanitarie più fragili.

L’atto dell’annuncio sembra a volte essere più importante del suo contenuto. E, al contempo, sembra quasi che questa emergenza non sia gestita da adulti raziocinanti, ma da isterici figuri sull’orlo di una crisi di nervi.