Da inizio marzo si stanno ripetendo episodi di respingimenti violenti al confine greco-turco e sulle isole dell’Egeo la situazione è presto diventata drammatica: il sovraffollamento degli hotspot e gli scontri tra i locali, i migranti e gruppi di vigilantes nazionalisti aumentano il clima di tensione. Ne abbiamo parlato in queste pagine nell’articolo a firma di Giulio Saturni al link e nell’intervista di Carolina Torres a Valerio Nicolosi a questo link. Secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, l’Unhcr, nell’ultimo anno l’afflusso di richiedenti asilo in Grecia è aumentato rispetto all’anno precedente. I numeri non possono essere comparati con il picco registrato nel 2015, ma è certo che le isole dell’Egeo orientale sono sopraffatte dall’emergenza che non è più emergenza ma normalità. 

L’associazione veronese One bridge to Idomeni (OBTI)si è attivata con gli amici di La luna di Vasilika – Onlus, prestando aiuto all’interno del campo di Diavata per tutto il 2020, con una nuova missione per portare aiuto e rendere più degna, per quanto possibile, la permanenza dei rifugiati costretti al loro interno. Per il momento a Salonicco la quotidianità dell’accoglienza è rimasta la stessa degli ultimi mesi e abbiamo raggiunto telefonicamente Jacopo Rui che ci ha raccontato cosa sta succedendo dal suo arrivo, lo scorso 6 marzo.

Jacopo, quando sei arrivato e dove stai prestando aiuto?

«Come volontario di OBTI sono arrivato la scorsa settimana al campo di Diavata a dare una mano, insieme ad altre associazioni italiane tra cui La luna di Vasilika che in realtà è qui da almeno 14 mesi. Abbiamo portato delle medicine per il team medico che fa primo soccorso nel campo, oltre a materiale sanitario che abbiamo raccolto all’inizio di questo mese grazie alla popolazione veronese. Le attività si dividono tra scuola di lingua e attività ludico-ricreative con i bambini del campo governativo composto da circa mille persone in prevalenza afgana, curda e siriana. Sono per lo più famiglie e minori a pochi chilometri da Salonicco.»

Ci puoi descrivere il contesto in cui ti trovi?

«Le notizie ci dicono che ci sono circa 109mila tra rifugiati e migranti. 70.200 di loro vivono nel continente in campi profughi, mentre 38.800 si trovano nelle isole, in condizioni precarie.  Ci sono migliaia di migranti asserragliati al confine e lungo il fiume Evros tra il confine con la Turchia e la Grecia, confine a cui non si può accedere. Le autorità e l’esercito greco non fanno avvicinare giornalisti e volontari. Al campo di Diavata non ho visto arrivi di massa, la popolazione è composta da circa mille persone. A Lesbo c’è un disastro umanitario, ci sono tra le 15 e le 20mila persone nel campo di Moria, dove le condizioni igieniche sanitarie sono insostenibili per quello che dovrebbe essere uno hotspot governativo europeo.»

Che atmosfera si respira nelle isole?

«La popolazione chiaramente è in difficoltà, le isole sono piccole e gli abitanti sono pochi e in una condizione di precarietà generale. Nelle scorse settimane si è vista anche la presenza sia lungo il confine sia all’interno delle isole di gruppi di nazionalisti neofascisti greci e stranieri, che hanno alimentato la tensione, aggredendo sia i migranti sia volontari e giornalisti.»

Anche in Grecia si è verificato il primo decesso a causa del coronavirus, un uomo morto all’ospedale di Patrasso. Finora in Grecia sono stati registrati 99 casi di contagio. Come si sta vivendo questa situazione in queste realtà così fragili?

«Ci sono stati due casi accertati a Chios e a Moria. Noi ci stiamo tutelando come volontari e per tutelare gli ospiti ma le condizioni igienico-sanitarie sono davvero pessime e anche per questo abbiamo sospeso le attività a Diavata. Quelli che dovevano essere luoghi di passaggio stanno diventando spazi permanenti. Diverse organizzazioni non governative (tra cui Medici senza frontiere) hanno chiesto l’evacuazione. La maggior parte dei campi greci sono costituiti da unità abitative minime (costituite da container), mentre altri sono stati ricavati in edifici. Ma le condizioni climatiche non permettono una vita serena. Inoltre, molti si trovano in aree remote, come in vecchie zone industriali o ex basi militari distanti molti chilometri dai centri urbani. Altri sono invece ubicati in prossimità di città o paesi. Dei trenta campi esistenti, 23 hanno accesso al trasporto pubblico (treni e bus), mentre i sette restanti sono tagliati fuori (nello specifico, i siti di Volos, Andravida, Grevena, Oinofyta, Ritsona, Serres e Thiva).»

Secondo UNCHR Grecia non è ideale tenere queste persone lontane dai centri urbani per lunghi periodi in aree in precarie condizioni. Costretti a limitate attività, i rifugiati sono esposti a maggiore stress, che a sua volta causa maggiori difficoltà nella capacità di integrazione e della creazione di autostima. A livello globale un campo profughi, secondo le politiche dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite, dovrebbe essere un centro di accoglienza temporaneo ed eccezionale pensato per chi è stato costretto ad abbandonare la propria casa.