Eccolo lì lo sconfitto. Dinanzi a noi la vittima. Il coronavirus, che s’insinua subdolo sulle patologie pregresse degli uomini, è anche il miglior veleno che si sia mai somministrato alla patologia della politica, il populismo. Populismo che in queste settimane abbaia alla luna nella sua inconcludente isteria, appare fastidiosamente chiassoso, turba la maggior parte delle persone che – già turbate di loro – preferiscono la verità agli slogan, le proposte alle proteste, la serietà alle polemiche, e accettano finanche la complessità alla demagogia, la profondità all’immediatezza.Nel caos gli italiani si affidano alla scienza. Nel panico gli italiani vogliono la politica e non il comizio, anelano a un governo che abbia lo stile del buon padre di famiglia, saldo, rassicurante. Non è il momento delle avventure, dei flirt, dei flauti magici delle promesse irrealizzabili. Lo ha capito (tardi) anche Salvini, che dopo le critiche feroci e sguaiate al governo – peraltro respinte da quel muro di gomma che è Conte, a cui tutto incredibilmente rimbalza – e i sondaggi in calo, ora improvvisamente recita il copione dell’uomo di opposizione collaborativo. Lo ha capito (in parte) la Meloni, che a un generale e apprezzabile senso dello Stato ha alternato solo un’uscita a vuoto ma rumorosa (il “Giuseppe Conte è un criminale”), evitabile perché la leader di FdI – che guida un partito sovranista e non populista, a differenza di Salvini che è un populista che gioca per opportunismo al sovranismo – avendo dalla sua l’ideologia non necessiterebbe di spararla grossa.E’ morto il populismo? Di certo è ferito, perché questo dramma epocale del Covid 19 cambia le carte in tavola, modifica la liturgia della politica e della sua narrazione. Cresce la domanda di serietà. Il marito torna dalla moglie (e viceversa), non è il tempo degli amanti.